Una storia che viene da lontano
Sono ormai
18 anni che funzionano gli istituti comprensivi in Italia. E’ un periodo giusto
per fare un bilancio critico. La storia degli istituti comprensivi si intreccia
con la storia più recente del nostro sistema educativo, con le sue domande, le
sue speranze, le sue illusioni: dal conferimento dell’autonomia alle istituzioni scolastiche alle
tante ipotesi di riforma (incompiuta) della scuola. Ben otto ministri si sono succeduti dal gennaio 1994,
data di istituzione dei comprensivi, che
rivelano dunque una insospettabile vitalità. L’istituto comprensivo ci consente
un approccio prospettico, che va oltre le contingenze del quotidiano, per
guardare i problemi della scuola con occhio disteso.
L’Istituto
comprensivo è senza dubbio una soluzione originale, quasi una via italiana alla
scuola di base. Nasce quasi
per caso, a metà degli anni ’90, nel
contesto dell art. 21 della legge 31 gen 1994 n. 97 sulla
tutela delle comunità montane (ma le scuole di montagna non
sono figlie di un dio minore e se scendono a valle hanno molto da dire anche a
chi sta in città). Fuor di metafora, sono diventati via via una “ambizione pedagogica”, pur non avendo rifondato un
nuovo ordinamento. Non c’è stata a fare da sponda agli istituti comprensivi la “scuola di base” come contesto di riferimento
istituzionale. Infatti tramontò
in fretta l’utopia di Berlinguer (1996-2000) con l’unificazione di scuola elementare e media, con le formule 6+6 o
7+5, forse anche per non aver creduto fino in fondo nei comprensivi. Abbiamo
avuto poi un più blando “primo
ciclo” dell’istruzione, con la riforma Moratti del 2003, ma con un forte segnale di cesura tra scuola primaria e scuola secondaria, in quel mancato biennio di raccordo
5^elem-1^ media, che pure era stato caldeggiato dai tecnici guidati dal prof.
Bertagna. Per non dire poi della scuola dell’infanzia pericolosamente ai
margini del sistema di istruzione (qui mi permetto solo di dire che un buon
comprensivo smonta l’ansia da anticipo perchè offre passaggi fluidi, come in
alcune buone esperienze europee).
Eppure
l’idea ha un suo fascino: costruire un ambiente educativo innovativo e
stimolante sotto il profilo pedagogico, organizzativo e professionale. E’ vero,
c’è un’immagine originaria che l’istituto verticale non è mai riuscito a
scrollarsi di dosso: sono stati fatti per
risparmiare! Insomma, un
prendi due e paghi uno. E’ pur vero che le presidenze sono passate da 17.000 ad 11.000, ma questo è stato il costo pagato
all’autonomia: ottenere
risparmi da investire nel sostegno alle scuole, con la legge 440/97. C’è
anche da dire che a metà degli anni ’90, il dimensionamento era fuori controllo: 220 alunni in media
per ogni scuola media: in quelle condizioni non era certo possibile una
scuola dell’autonomia. La intendiamo come un centro vitale, pensante, con idee,
capace di stare sul territorio con autorevolezza, con professionalità stabili.
Non in tutte le regioni italiane questi principi sono stati presi sul serio, a
guardare le tavole statistiche sugli istituti ben al di sotto dei parametri
fissati dal legislatore (500-900 alunni), pur considerando anche le
indispensabili deroghe (300 alunni). Quel criterio, che oggi sembra
riconfermato, non è mai stato sottoposto ad una seria verifica. Sarebbe utile,
ad esempio, distinguere la dimensione ottimale di un centro
direzionale della scuola (l’istituzione autonoma con le sue diverse
sedi), da quella di un plesso scolastico (cioè
dal punto di erogazione del servizio agli allievi). Spesso si è fatto
confusione, anche di questi tempi, tra i due livelli. Sarà importante non
appiattire la discussione solo sui numeri, ma capire qual è la qualità
possibile della scuola, nei diversi contesti territoriali, e quali i possibili
modelli organizzativi.
Dare uno scopo “nobile” alla scuola di base
Ma non è questa la sola strada da intraprendere. E comunque non è quella principale. Piuttosto, è necessario dare uno scopo più forte, nobile, a questa idea nata forse per caso… E lo scopo c’è già, bisogna saperlo vedere. E’ quello di rendere più forte la formazione di base dei nostri ragazzi, definire un quadro di competenze significative e cercare di promuoverle sul serio al massimo grado, sfruttando fino in fondo l’arco di età 3-14 anni (si potrebbe dire 3-16, come già faceva Bruno Ciari nel 1970 o 20 anni dopo Maria Luisa Altieri Biagi tratteggiando con gli insegnanti di Lugo di Romagna i primi curricoli verticali di educazione linguistica).
Oggi la
scuola sembra non farcela. E’ stata definita sulle prime pagine dei giornali
come “scuola senz’anima” (De Rita), scuola “incapace di dare uno scopo a se stessa ed ai ragazzi”
(E.Galli Della Loggia), con un eccesso di proposte quasi ad inseguire i tanti
frammenti della cultura contemporanea. Mi ha molto colpito il “guanto di sfida” che qualche settimana fa un
valente economista (L.Ricolfi) ha gettato nel campo della scuola elementare. Scuola perfetta
come luogo di socializzazione
e di ricreazione, ma
non in grado di trasmettere conoscenze e formare capacità durature. “Fabbrica degli ignoranti” (parafrasando il libro
di Floris). L’economista espone un quadro di competenze auspicabili per gli
allievi e condivisibili sul piano pedagogico: capacità di concentrarsi, di ordinare le idee, di auto
valutarsi, di mettere impegno in attività non immediatamente gratificanti.
Ma ci sono pesanti accuse sul mancato raggiungimento di risultati utili al
termine della scuola di base: i ragazzi non
sanno organizzare un discorso né a voce né per iscritto, non conoscono il significato esatto delle parole,
fanno errori logici, non riescono a farsi capire se non in situazioni ultra-semplici (organizzazione del pensiero, come dicono le Indicazioni 2007).
Ma quando,
dove, in che modo, si possono sviluppare queste competenze? Chi lo deve fare? E
poi, cosa sono le competenze chiave di cittadinanza, a cui spesso ci richiama
l’Europa? Evidentemente non sono generiche abilità trasversali appesa al nulla,
ma si innervano su “saperi reali” progressivamente organizzati in discipline. Qui
sta un’idea di formazione di base, con le sue continuità e discontinuità, con i
suoi ambienti di apprendimento in progressione. Un’idea con un respiro europeo
per affrontare le sfide internazionali.
Non vorrei ripetere la giaculatoria OCSE-PISA (l’abbiamo fatto troppe volte e comunque ciò che
colpisce sono le estreme differenze tra le regioni e le scuole italiane).
Preoccupano, piuttosto, gli esiti deludenti della
quarta prova d’esame di terza media (2010), o altri dati come quel 20%
di ragazzi non sufficienti in apprendimenti fondamentali come la matematica e
la lingua straniera (giusto bandire il 6 politico, ma noi abbiamo il 20% di insufficienti alla fine della terza media, a
fronte del 3,5% di “bocciati”). Oggi si fa un gran parlare di voti in
decimi, ma sarebbe più urgente parlare di cosa si fa “prima, durante e dopo”
aver assegnato un voto o registrato una insufficienza…
Si crea,
anche in una buona regione come l’Emilia-Romagna (dove abbiamo appena
completato la presentazione del Rapporto regionale
sullo stato di salute della scuola in 10 meeting, incontrando almeno 1000
operatori scolastici ed amministratori locali), un
corto circuito tra ambiente sociale di provenienza familiare, apprendimenti insufficienti già alla scuola media,
scelta stratificata delle superiori, criticità diffuse nei percorsi (a scalare
tra licei, tecnici e professionali …). Il che fare attiene certamente ad
un ripensamento del modo di essere della scuola a tutti i livelli (in primo
luogo del nuovo biennio obbligatorio), ad una revisione
dei modi di insegnare le discipline (pensiamo alla matematica). Ma la
prima parte del percorso scolastico – il primo ciclo di istruzione - non può
non interrogarsi sui suoi compiti formativi…
Le quattro generazioni degli istituti comprensivi
Qui sta – a mio parere - la ragione sociale dell’istituto comprensivo, una ragione non immediatamente percepibile (troppo debole l’idea della continuità, su cui pure si lavorò molto all’inizio degli anni ’90, ma forse con risultati inferiori alle attese, un po’ aleatori, affidati alla negoziazione locale di molti attori, comunque ad una scelta non istituzionale). Le ragioni del comprensivo si sono via via “svelate” lungo la sua recente storia, che mi piace sintetizzare in 3 generazioni, ben chiare nel corso degli anni, ma fortemente intrecciate come vedremo.
La prima generazione è quella della emergenza territoriale, geografica, come soluzione per “salvare il salvabile” nelle zone difficili, Nuoro, Isernia, per non impoverire di centri direzionali le aree interne, a bassa densità abitativa; spesso sottovalutate nel loro valore storico, fondativo della nostra identità. Come non pensare agli Appennini ed ai centri di spiritualità medievali che hanno fatto la nostra cultura (ed è per questo che c’è attenzione viva in queste realtà: vedi Manifesto di Sestino, tra Toscana e Montefeltro) o ai piccoli borghi comunali con il senso dell’autogoverno (penso a San Gimignano come capitale “simbolica” dei comprensivi con le sue difese e la sua voglia di autonomia). Insomma non è un’Italia minore, quella delle piccole città, e la prospettiva degli istituti comprensivi l’ha fortemente coinvolta e valorizzata (e forse va studiato qualcosa di analogo anche per i piccoli plessi).
La seconda generazione è di quelli che hanno fortemente creduto all’idea, che hanno deliberato la “verticalizzazione” nel collegio dei docenti, che hanno cercato una legittimazione ad una sperimentazione già in atto o da stimolare. Che hanno dato vita a reti di scuole sperimentali, fin dall’inizio, attraverso progetti pilota e progetti nazionali (come quello coordinato scientificamente dal prof. Pietro Boscolo, dell’Università di Padova). Sono stati prodotti materiali di documentazione, quaderni di lavoro, ipotesi di curricoli, repertori di buone pratiche. Questo lavorìo sperimentale, non adeguatamente sostenuto a livello nazionale, si è stemperato nel corso degli anni, ma è rimasto un sottofondo diffuso che garantisce una rete di protezione culturale alla vicenda dei comprensivi.
a)
un’originale lettura del termine “competenza”,
fino ad arrivare alla proposta di un curricolo verticale centrato sulle
competenze (ed era il lontano 1998);
b) il concetto di ambiente di apprendimento, con
attenzione alle relazioni cooperative tra alunni, ai progetti integrati tra i
diversi livelli scolastici;
c) l’innovazione metodologica, che sceglie come
emblema il laboratorio, anche in comune tra più livelli, e la didattica
dell’ambiente (ad es. a contatto con i parchi naturali);
d) la comunità professionale (con la pratica del
prestito professionale, lo scambio, la collaborazione tra i docenti).
Sono
esperienze di grande valore pedagogico, che possono essere rilette anche alla
luce delle nuove piattaforme programmatiche. E’ appena il caso di ricordare le Indicazioni per il curricolo del
2007, che sembrano raccogliere molti di questi spunti. Il format delle
Indicazioni più recenti si attaglia molto bene al comprensivo: il testo
programmatico non è la sommatoria di tre diversi programmi, ma il tentativo
di un progetto unitario ed integrato (vedi le discipline “in verticale”), pur
con le sue specificità. Ed è forse giunto il momento di rilanciare queste
vocazioni pedagogiche per renderle criteri di qualità per il funzionamento
degli Istituti Comprensivi. In questa ottica è utile il recupero delle tre
fondamentali circolari sugli istituti comprensivi: la
454/1997, la 352/1998, la 227/1999 elaborate nel vivo del contatto con le
sperimentazioni in atto.
La terza generazione è quella del massimo sviluppo. Dopo le stagioni dell’emergenza e delle nicchie sperimentali, il comprensivo diventa il modello di punta del dimensionamento delle istituzioni scolastiche, propedeutico al conferimento dell’autonomia. I protagonisti di quella operazione a cavallo degli anni 2000 sono i Comuni, le province, le Regioni (le loro competenze sono ben delineate nei decreti 112/98 e 233/98). Non è però solo una opportunità (giocata sulla soglia magica di 500 o di 300 alunni) per mettere ordine nelle relazioni scuola territorio, operazione certamente più “naturale” nelle vallate, nei piccoli centri con una sola scuola, nei quartieri a forte identità, più incerta negli altri contesti geografici (ad esempio nelle città capoluogo). Ma l’autonomia non è solo una scuola più vicina alla comunità. E’ una affermazione di identità, di responsabilità, di progettualità, di flessibilità delle scelte, con adeguati supporti finanziari, professionali, amministrativi, organizzativi. Ma questa è già una definizione impegnativa di autonomia, vera, su cui abbiamo bisogno di ritornare ancora, a 10 anni dal Dpr 275/1999. Dovremo riscoprire in fretta le potenzialità di quel regolamento, se passerà l’idea di un organico di istituto – come pure si legge nel piano attuativo della legge 133/2008.
Cosa emerge
da questa terza generazione, così ampia, di migliaia di verticalizzazioni spesso subite
malvolentieri da una scuola abituata ai suoi ritmi, alle sue identità?
In primo luogo una focalizzazione sui soggetti professionali che fanno (o non
fanno) comprensivo: i dirigenti scolastici –
è evidente che c’è un sovraccarico, ma c’è una visibilità riconquistata, quasi
una identificazione diretta. Il dirigente impersona
l’unitarietà della istituzione. La sua è una professionalità che cresce: un po’ leader, un po’ manager
come oggi si dice. Che si prende cura di un istituto complesso. Che per
farlo deve studiare modelli
organizzativo-professionali ben articolati, investire
sulle figure di staff, rivedere il sistema
delle responsabilità (si pensi alla questione della valutazione), far uscire la collegialità dalla routine. Serve un
check-up organizzativo approfondito, perché una buona organizzazione determina
un buon curricolo. Ma le decisioni collegiali da prendere non sempre sono
facili, perché ancora
troppo diversi sono gli statuti professionali (e le condizioni giuridiche) dei docenti dei
tre livelli scolastici che compongono l’istituto.
Ad ogni
modo, il comprensivo invita a prendere sul serio l’autonomia, a scoprire e
utilizzare fino in fondo le sue possibilità.
Questa
storia, le tre stagioni, sono poi racchiuse in tre
parole chiave (il territorio, il curricolo, l’autonomia/la professionalità) che
hanno dettato la struttura del convegno regionale di Bologna (17 novembre
2008); i gruppi di lavoro, i focus preliminari, i documenti finali.
Verso i comprensivi di quarta generazione
Stiamo ormai lavorando per la quarta generazione dei comprensivi, per quelli che si affacciano solo ora sulla scena, che non possono accontentarsi di una giustificazione di routine, o di convenienza numerica o territoriale, e che sono alla ricerca di un possibile valore aggiunto. Diventare comprensivi oggi è una scelta coraggiosa, che modifica situazioni consolidate nel tempo e che può creare uno stress iniziale. Occorre condividere delle ragioni strategiche: le trovo – anche in questi tempi duri, con sfide impensabili fino a poco tempo fa, che portano a chiudersi piuttosto che ad aprirsi - nelle idee di autogoverno, di coerenza e unitarietà del progetto educativo, di una comunità professionale più consapevole, di propensione alla ricerca e all’innovazione, di legami solidi con il territorio ed il contesto locale.
Ad esempio,
la quarta generazione, in
merito alle relazioni con il territorio, non può limitarsi a fare il catalogo
delle buone pratiche (ce ne sono tante), a riconfermare i temi forti dei
patti educativi, delle alleanze; dovrà piuttosto esplorare il tema della scuola come fattore di sviluppo
locale, come uno degli
elementi di quella coesione sociale, qualità sociale della vita, che fa la differenza. La
scuola – se si presenta con una sua compattezza e credibilità – può diventare
un “potere forte” tra gli altri, può essere un motore di sviluppo. All’inizio dell’anno
scolastico, un sindaco in una cittadina toscana ha chiesto agli insegnanti di
diventare alleati per costruire
un territorio creativo (caratterizzato dalle tre T di: talento, tolleranza, tecnologia e
dall’italianissima T di territorio). Questo mi sembra un bel compito, capace di
ricaricare le batterie di una scuola, quando tendono a scaricarsi.
Ancora, la quarta generazione, sul tema del curricolo può
spendersi sulla ricerca di un curricolo
verticale, sulla
condivisione di tappe, di progressioni negli apprendimenti, di standard d’istituto (costruiti dal basso o almeno,
validati dal basso). In questo campo è importante smentire il luogo comune di un istituto
comprensivo che elementarizza la formazione di base. Infatti, non
dovremo parlare solo di continuità, ma anche di discontinuità utile, di
diversità degli ambienti di apprendimento… Ma per farlo occorre diventare più esperti di
apprendimento, di gestione della classe, di connessione dei saperi ed
occorre farlo insieme, mettendo a frutto le diverse
culture professionali delle tra scuole (materna, elementare, media) che
si incontrano nel comprensivo.
Infine, la quarta generazione - sul tema dell’organizzazione
professionale - invita a riscoprire le dinamiche autentiche della comunità
professionalità, che è fatta di senso di appartenenza, di sfida per una impresa comune (e non di gestione di un solo
segmento), di dialogo costante
con il territorio, di presenza stabile di punti di riferimento. Insomma l’ipotesi è che l’istituto comprensivo sia un
ambiente educativo ad alto tasso di comunicazione, di forte mobilità intellettuale,
in grado di superare vecchie
gerarchie tra saperi e stereotipi professionali.
Inverare
questa quarta generazione è ormai compito e prerogativa delle scuole autonome.
Il Ministero, gli Uffici Scolastici regionali, l’amministrazione nei suoi
diversi livelli, dovranno offrire stimoli culturali, quadri di riferimento, una
sicura sponda istituzionale.
Insomma a
chi ci chiede di dare un’anima alla scuola, noi possiamo rispondere che ce la
possiamo fare, nonostante le docce fredde delle “riforme che non finiscono mai”. A partire da una
delle poche riforme costruite dal vivo, dal basso, non da eseguire, ma da
scegliere e da interpretare.
da Giancarlo Cerini rielab.
da Giancarlo Cerini rielab.
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