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venerdì 29 giugno 2012

DALLA MEMORIA EMOTIVA ALLA COGNIZIONE






DALLA MEMORIA EMOTIVA ALLA COGNIZIONE
Il sistema amigdala - ippocampo
Essa si esprime nello stesso modo negli animali e negli uomini. Tutti gli animali si devono proteggere dalle situazioni di pericolo per sopravvivere. Le strategie di cui dispongono sono:
ritirata (evitare il pericolo o fuggirlo), aggressione difensiva (mostrarsi pericolosi o rispondere all’aggressione), sotto-missione (pacificazione).
Sistema limbico centri della memoria emotiva vista 1
I modelli di risposta alla paura sono geneticamente programmati nel cervello umano.
Quando il cervello percepisce il pericolo, attraverso i nervi del sistema nervoso autonomo invia agli organi dei messaggi e ne regola l’attività per adattarli alle esigenze della situazione: lo stomaco è teso, la frequenza cardiaca aumenta, la pressione arteriosa aumenta, mani e piedi diventano sudati, la bocca è secca. Queste sono tutte reazioni tipiche della paura negli esseri umani. Il tutto avviene in modo simile anche negli animali. Ma la nostra esperienza quotidiana ci dice che ci sono persone che hanno la tendenza a combattere, mentre altre non lo fanno, ci sono persone brave ad avvertire il pericolo e altre che invece non se ne accorgono.
Le differenze nei comportamenti individuali nei confronti della paura sono dovute in parte alla diversità genetica.
Ma la manifestazione dell’effetto normalmente associato al possesso di un certo gene dipende molto anche da come siamo stati allevati, dall’alimentazione, dall’educazione che riceviamo e dagli altri geni che accompagnano quello preso in considerazione.

Detto in altre parole i geni ci danno la materia prima con la quale costruire le nostre emozioni: specificano il tipo di sistema nervoso che avremo, i tipi di processi mentali, i tipi di funzioni fisiche.
Ma il modo esatto in cui agiamo e pensiamo e quello che proviamo in una particolare situazione sono determinati da molti altri fattori e non sono scritti nei geni.
Le emozioni quindi possono avere una base biologica, ma i fattori sociali e quindi cognitivi, sono altrettanto cruciali.
La natura e la cultura sono socie nella vita emotiva. Il problema sta nello scoprire quali siano i rispettivi contributi.
I milioni di miliardi di connessioni realizzate dai miliardi di neuroni cerebrali, sembrano formare un groviglio inestricabile, eppure le varie aree hanno delle relazioni ben strutturate.
Sistema limbico centri della memoria emotiva vista 2
L’AMIGDALA è la parte del sistema limbico specializzata nelle questioni emozionali: se viene asportata il risultato è una evidentissima incapacità di valutare il significato emozionale degli eventi.
Essa funziona come un archivio della memoria emozionale ed è quindi depositaria del significato stesso degli eventi.
La vita senza amigdala è un’esistenza spogliata di significato personale.
Tutte le passioni dipendono dall’amigdala.
 I segnali in entrata provenienti dagli organi di senso consentono all’amigdala di analizzare ogni esperienza, facendone una sorta di “sentinella psicologica” che scandaglia ogni emozione e ogni percezione guidata da domande che hanno radici nella notte dei tempi: “ E’ qualcosa che temo, qualcosa che odio, qualcosa che ferisce?”
Se la risposta è affermativa, l’amigdala reagisce immediatamente inviando un messaggio di allerta a tutte le parti del cervello.
Stimola così la secrezione degli ormoni che innescano la reazione di combattimento o fuga, mobilita i centri del movimento e attiva il sistema vascolare, i muscoli e l’intestino.
I sistemi mnemonici corticali vengono riorganizzati con precedenza assoluta per richiamare ogni informazione utile nella situazione di emergenza contingente.
L’estesa rete di connessioni neurali dell’amigdala, le consente, durante un’emergenza emozionale, di SEQUESTRARE gran parte del resto del cervello, compresa la mente razionale e di imporle i propri comandi.
Posizione dell'amigdala nel sistema limbico
Ma ritorniamo al talamo e agli stimoli sensoriali in entrata. Esiste un collegamento diretto anche tra il talamo e l’amigdala, che fa in modo che uno stimolo condizionato di paura possa suscitare delle risposte di paura senza l’intervento della corteccia.
In particolare il NUCLEO CENTRALE dell’amigdala ha delle connessioni con le aree del midollo allungato implicate nel controllo della frequenza cardiaca e di altre risposte del sistema nervoso autonomo.
Le lesioni a questo nucleo centrale bloccano l’espressione di tutte le risposte neurovegetative, mentre la lesione dei singoli percorsi neurali in uscita bloccano soltanto le singole risposte. Compreso il nucleo centrale, l’amigdala è formata da una dozzina di sottoregioni non tutte coinvolte nel condizionamento alla paura.
Possono quindi interferire con quest’ultimo soltanto le lesioni che danneggiano le regioni dell’amigdala che fanno parte del circuito del condizionamento alla paura.
A questo proposito il NUCLEO LATERALE e il NUCLEO CENTRALE hanno senza dubbio un ruolo essenziale, mentre il ruolo delle altre regioni è ancora allo studio.
(Si ipotizza che la zona mediale dell’amigdala sia responsabile delle sensazioni spiacevoli, mentre la zona laterale sarebbe più coinvolta nelle sensazioni piacevoli).

L’APPRENDIMENTO EMOTIVO ( per il collegamento diretto talamo-amigdala) può quindi avvenire senza coinvolgere i sistemi di elaborazione superiori del cervello.
Ma esistono anche i collegamenti  tra il talamo e la corteccia. Che differenza c’è tra i collegamenti talamo-amigdala e talamo-corteccia?
I neuroni dell’area del talamo che inviano per esempio delle proiezioni nella corteccia uditiva primaria, hanno una sintonia molto fine: non reagiscono a qualunque stimolo, ma solo a certi. Invece le cellule delle aree talamiche che inviano delle proiezioni all’amigdala, reagiscono a una gamma molto più vasta di stimoli e forniscono all’amigdala solo una rappresentazione rozza dello stimolo stesso.
Il percorso diretto talamo-amigdala è un percorso di elaborazione veloce, ma impreciso, che consente però di rispondere a stimoli potenzialmente pericolosi, prima di sapere esattamente che cosa siano.
In effetti se i percorsi talamo-amigdala non fossero stati utili, avrebbero avuto tutto il tempo di atrofizzarsi. Il fatto che siano esistiti per milioni di anni, e che esistano tuttora, accanto ai percorsi talamo-corticali, indica che hanno una funzione importante.
Possiamo quindi osservare che nella percezione degli stimoli esistono due strade:
una “ STRADA ALTA” e una “ STRADA BASSA”.
La strada bassa è quella tramite la quale l’informazione sugli stimoli esterni raggiunge l’amigdala da percorsi diretti provenienti dal talamo, e la strada alta è formata da percorsi che vanno dal talamo alla corteccia e dalla corteccia all’amigdala.
La strada bassa è molto utile nelle situazioni pericolose.
Amigdala e ippocampo: memoria emotiva; memoria a lungo termine e spaziale
E’ probabile che questo percorso diretto sia responsabile delle risposte emotive che no capiamo.
Cioè l’amigdala può reagire con un delirio di collera o di paura, prima che la corteccia sappia che cosa stia accadendo e questo proprio perché l’emozione grezza viene scatenata in modo indipendente dal pensiero razionale e prima di esso.
La strada bassa potrebbe anche essere il modo di funzionamento dominante negli individui che soffrono di certe turbe emotive, mentre in ognuno di noi questa modalità si produce solo occasionalmente.
Il  percorso diretto talamo-amigdala ha un vantaggio importante: nel ratto occorrono circa 12 millesimi di secondo perché uno stimolo acustico raggiunga l’amigdala attraverso di esso, mentre impiega due volte di più attraverso il percorso corticale.
Infatti il percorso proveniente dal talamo richiede un unico collegamento, mentre ce ne vogliono parecchi per attivare l’amigdala attraverso la corteccia, e ogni collegamento in più richiede tempo:
il primo percorso, quindi, anche se non ci dice che cosa ci sta minacciando, avverte velocemente che c’è una minaccia.
Dal punto di vista della sopravvivenza è meglio reagire a delle circostanze potenzialmente pericolose come se lo fossero davvero, che non reagire affatto.
Confondere un bastone per un serpente costa meno del contrario. Dalla corteccia arrivano invece all’amigdala delle rappresentazioni più accurate e dettagliate.
I percorsi talamo-amigdala e corteccia-amigdala convergono poi nel nucleo laterale dell’amigdala. Da qui le informazioni, attraverso i percorsi interni dell’amigdala, possono venire distribuite al nucleo centrale che poi può scatenare l’intero repertorio delle reazioni difensive, dal momento che è connesso con le aree del cervello che controllano queste risposte.
I segnali in uscita dal nucleo centrale regolano, quindi, l’espressione delle diverse risposte.
Abbiamo visto che nel cervello uno stimolo ad esempio visivo in entrata viene elaborato per  prima cosa dal talamo. Più specificatamente parte del talamo invia informazioni rozze, quasi archetipiche direttamente all’amigdala. E questa informazione veloce e imprecisa è quella che consente al cervello di incominciare a rispondere al possibile pericolo.
Intanto un’altra parte del talamo manda informazioni visive alla corteccia visiva. Quest’altra parte del talamo ha la capacità di codificare i particolari dello stimolo, in misura molto maggiore della parte che invia i segnali all’amigdala.
La corteccia visiva procede quindi alla creazione di una rappresentazione dettagliata e accurata dello stimolo. Il risultato dell’elaborazione corticale viene poi anche inviato all’amigdala, che riceve quindi anche una rappresentazione più esatta.
Il tempo risparmiato dall’amigdala nell’agire in base all’informazione talamica, invece di aspettare anche il segnale  dalla corteccia, può rappresentare la differenza tra la vita e la morte.
Analizziamo ora un altro aspetto del circuito della paura. Quando subiamo un trauma (ad esempio un’aggressione), non restiamo condizionati solo dallo stimolo associato direttamente al trauma ( ad esempio,  se siamo stati aggrediti e rapinati da una persona che ci è venuta incontro correndo, quando vediamo una persona che ci corre incontro, per qualsiasi altro motivo, potrebbe di nuovo scattare la paura), ma anche da altri stimoli che erano ugualmente presenti e costituivano il contesto del trauma (ad esempio la strada dove siamo stati aggrediti, il tipo di automobile che stava passando in quel momento, il suono di una sirena ecc.).
Anche il contesto può diventare uno stimolo condizionato di paura: quando ripassiamo per quella stessa strada, anche se non succede nulla di traumatico, noi possiamo provare paura. Di un contesto è interessante il fatto che non è costituito da uno stimolo particolare, bensì da una raccolta di stimoli. L’IPPOCAMPO  interviene nelle risposte di condizionamento alla paura rispetto al  CONTESTO.
Esso ha infatti il compito di CREARE UNA RAPPRESENTAZIONE DEL CONTESTO  che contenga i rapporti tra gli stimoli e non singoli stimoli. Una lesione all’ippocampo elimina selettivamente le risposte di paura suscitate dagli stimoli contestuali ( ad esempio la strada in cui è avvenuta l’aggressione)  senza influire sulla risposta  dovuta allo stimolo condizionato ( la persona che mi corre incontro). Cioè se passo per la strada dove è avvenuta l’aggressione, non provo paura, ma se una persona mi corre incontro posso provare paura.
Il danno all’amigdala, invece, interferisce sia con il condizionamento contestuale, sia con il singolo stimolo condizionante. Questo perché l’amigdala riceve sia segnali da regioni del talamo dedicate ad uno dei sensi, sia informazioni di livello superiore da aree della corteccia dedicate a uno dei sensi, sia  informazioni sulla situazione generale dall’ippocampo. Attraverso queste connessioni è in grado di elaborare l’importanza emotiva di stimoli singoli e anche di situazioni complesse.
Se quindi l’amigdala è coinvolta nella valutazione del significato emotivo degli stimoli in entrata, i segnali provenienti dall’ippocampo hanno una parte fondamentale nello stabilire il contesto.

Per capire ancora meglio le funzioni dell’ippocampo e dell’amigdala, è opportuno fare alcune considerazioni sulla memoria e sui sistemi di memoria.
Per molto tempo si è pensato che esistesse un solo sistema di apprendimento, il quale si sarebbe occupato di tutto quanto il cervello impara. Ma studi di fisiopsicologia hanno portato alla conclusione che la memoria non viene mediata da alcun sistema neurale particolare, ma è distribuita in modo diffuso nel cervello. Meglio ancora, nel cervello ci sono sistemi di memoria multipli, ognuno con funzioni diverse.
I ricordi diversi, come le emozioni e le sensazioni diverse, provengono da sistemi cerebrali diversi. Possiamo studiare la memoria da diversi punti di vista. Studiando il sistema limbico inevitabilmente ci troveremo a considerarne alcuni. Ci sono innanzitutto due grandi sistemi di memoria: uno che contribuisce a formare la memoria delle esperienze fatte e a mettere a disposizione dei ricordi coscienti, l’altro che opera invece fuori dalla coscienza e controlla il comportamento, senza una consapevolezza esplicita dell apprendimento avvenuto.
I ricordi coscienti vengono indicati con i termini di MEMORIA DICHIARATIVA O ESPLICITA.
Possono essere riportati alla mente e descritti a parole, a volte magari con un po’ di fatica, ma sono comunque potenzialmente a disposizione della coscienza.
L’altro tipo di memoria forma dei RICORDI INCONSCI DETTI NON DICHIARATIVI O IMPLICITI, per esempio a proposito di situazioni pericolose o comunque minacciose.
L’apprendimento che si produce in questo caso non dipende dalla consapevolezza e, una volta avvenuto,lo stimolo non deve per forza essere percepito consciamente per provocare delle risposte emotive condizionate.
In un cervello integro questi due sistemi lavorano contemporaneamente e ognuno forma i suoi ricordi.
Un’altra distinzione tra diversi tipi di memoria è quella tra MEMORIA A BREVE TERMINE, oggi detta più propriamente MEMORIA DI LAVORO e la MEMORIA A LUNGO TERMINE.
Quello che accade nella memoria a breve termine è suscettibile di passare in quella a lungo temine. Il sistema cerebrale che forma i ricordi a lungo termine è diverso da quello che li immagazzina.
L’ippocampo sembra essere il candidato più probabile alla funzione di custode della memoria.
Quindi alcune regioni del sistema limbico, ippocampo e aree affini della corteccia , sono coinvolte nella formazione e nel richiamo di ricordi espliciti. L’ippocampo svolge più in particolare la sua funzione nelle forme di apprendimento e di memoria che dipendono da indicazioni spaziali.
Forma quindi delle rappresentazioni spaziali che hanno la funzione di creare il contesto in cui collocare i ricordi.
E’ il contesto che rende autobiografici i ricordi, che li situa nello spazio e nel tempo e ciò spiega il ruolo dell’ippocampo nella memoria.
Nel corso degli anni l’ippocampo abbandona a poco a poco il controllo dei ricordi alla corteccia , dove rimangono finché esiste la memoria, addirittura per tutta la vita. Infatti l’asportazione dell’ippocampo non impedisce i ricordi di vita avvenuti prima dell’asportazione, impedisce solo di memorizzare nuovi ricordi  dopo l’operazione. La persona perde permanentemente la capacità di imparare cose nuove, in particolare di ricordare le sue esperienze. L’ippocampo svolge quindi un ruolo critico nella memorizzazione di nuovi ricordi, ma non è il luogo dove essi vengono depositati. Si ipotizza quindi che i ricordi di esperienze recenti possano essere immagazzinati in alcune regioni della corteccia cerebrale. Nel morbo di Alzheimer la malattia incomincia dall’ippocampo e ciò spiega come la perdita di memoria sia un primo segnale di allarme.
 Ma il morbo poi si infiltra nella neocorteccia e questo spiega perché, mentre progredisce, vengono compromessi tutti i ricordi, nuovi e vecchi, insieme a svariate altre funzioni cognitive che dipendono dalla corteccia. Nei mammiferi i danni alla formazione ippocampale comportano ugualmente gravi danni nell’apprendimento e nella memoria.
 Le deficienze della memoria ippocampale impediscono l’accumulo di nuove conoscenze, mentre vengono conservate le memorie di eventi precedenti al danno.
L’ippocampo è il collegamento chiave in uno dei più importanti sistemi cognitivi del cervello: quello della MEMORIA DEL LOBO TEMPORALE che si occupa della memoria dichiarativa o esplicita. Essa è mediata dall’ippocampo e dalle aree corticali ad esso connesse, le cosiddette aree di transizione tra la neocorteccia e l’ippocampo: area peririnale, para - ippocampale, entorinale. Le diverse forme di memoria inconscia sono invece mediate da altri sistemi.
Un esempio di memoria inconscia è la cosiddetta MEMORIA PROCEDURALE, che consiste nell’apprendimento e memo- rizzazione delle abilità manuali, essa è mediata da un sistema diverso da quello del lobo temporale. Infatti un danno al sistema di memoria del lobo temporale interferisce con la capacità di ricordare consapevolmente (memoria dichiarativa), ma lascia intatta quella di imparare alcune abilità.
La memoria procedurale è mediata da molti sistemi di memoria, mentre la memoria dichiarativa è mediata da un unico sistema, appunto quello del lobo temporale.
 Un altro sistema di memoria implicita è quello della MEMORIA EMOTIVA che comprende l’amigdala e le aree collegate.
Nelle situazioni traumatiche il sistema della memoria esplicita e quello della memoria implicita funzionano in parallelo.
In seguito, l’esposizione agli stimoli presenti durante il trauma può attivare entrambi i sistemi.
 Attraverso il sistema dell’ippocampo ricordiamo con chi eravamo e cosa facevamo durante il trauma e anche il fatto nudo e crudo che la situazione era atroce.
Attraverso il sistema dell’amigdala gli stimoli provocheranno tensione muscolare, variazioni della pressione sanguigna, aumento della frequenza cardiaca, il rilascio di ormoni e altre risposte fisiologiche e cerebrali ( le reazioni di paura).
Siccome i sistemi sono attivati dagli stessi stimoli e funzionano contemporaneamente, i due tipi di memoria  sembrano far parte di un’unica funzione della memoria.
Parte più antica del cervello umano. Residuo ancestrale del cervello rettile di MacLean
Fra memoria implicita e memoria esplicita esiste una notevole differenza: il sistema della memoria esplicita è smemorato e impreciso (vedremo questo meglio parlando della selettività della memoria). Invece il sistema della memoria implicita legato alle risposte di paura condizionata ha una memoria che non accenna a diminuire con il passare del tempo.
L’apprendimento della paura condizionata sembra essere molto resistente, se non addirittura indelebile. A questo proposito un riferimento va fatto alla cosiddetta “AMNESIA INFANTILE”, che ci dà l’opportunità di capire ancora meglio come funzionano queste due memorie.
Noi siamo in genere incapaci di ricordare le esperienze della prima infanzia, fino a tre anni circa. Ciò viene attribuito al periodo abbastanza lungo di maturazione che l’ippocampo deve compiere per diventare pienamente funzionale. Le cellule di quest’area devono infatti crescere e collegarsi con quelle delle altre aree con cui comunicano.  Quindi non avremmo ricordi espliciti dell’infanzia semplicemente perché il sistema che li forma non sarebbe ancora pronto. Stessa cosa avviene per la neocorteccia.
Invece l’amigdala matura molto velocemente nel cervello del bambino e alla nascita è molto più vicina di altre strutture allo sviluppo completo.
Ad esempio i bambini di età compresa tra i sette e i dodici mesi cominciano a mostrare una evidente paura verso gli estranei e la capacità di regolare il livello di paura basandosi sull’interpretazione della espressione del genitore verso la presenza di situazioni pericolose. Durante questo periodo diventano funzionalmente mature la corteccia prefrontale, l’amigdala e l’ipotalamo; (a partire dai nove mesi incomincia invece a maturare quella parte della corteccia cerebrale responsabile dello sviluppo delle funzioni superiori : lettura, scrittura, linguaggio e sua interpretazione).
Dal momento che il sistema che forma i ricordi inconsci degli eventi traumatici, cioè l’amigdala, matura prima dell’ippocampo, i traumi precoci, sebbene non ricordati in modo cosciente, possono avere una influenza duratura. Questo spiega perché le nostre esplosioni emozionali a volte ci sconcertano: esse possono avere radici in un periodo molto precoce della nostra vita e riguardano soprattutto il rapporto tra il bambino e chi si prendeva cura di lui. Altri sistemi di memoria, invece, sono già attivi nel bambino piccolo: infatti i bambini piccoli imparano moltissime cose, anche se non conservano ricordi coscienti di averle imparate.
Sempre a proposito di memoria più o meno indelebile, è interessante analizzare il ruolo che a questo livello svolge l’ADRENALINA, ormone periferico prodotto dalle ghiandole surrenali.
Quando in una certa situazione l’adrenalina viene rilasciata dalle ghiandole surrenali, quella esperienza di solito viene ricordata con grande precisione. E siccome di solito l’eccitazione emotiva (ad esempio la paura) provoca un rilascio di adrenalina, la memoria cosciente esplicita delle situazioni in cui c’è un’eccitazione emotiva, dovrebbe essere più forte di quella delle esperienze in cui tale attivazione non ha luogo.
Da ciò possiamo spiegarci come mai le esperienze della vita che più ci feriscono o ci spaventano, sono destinate a diventare i nostri ricordi più indelebili. Come fa una situazione emotiva a provocare il rilascio di adrenalina?
L’amigdala, non appena capta una situazione emotiva negativa, di pericolo, “accende” una serie di sistemi fisici  compreso il sistema nervoso autonomo. Questo, a sua volta, stimola da parte delle ghiandole surrenali il rilascio dell’adrenalina nel sangue. L’adrenalina influenza a sua volta il cervello, ma per via indiretta, in quanto è una molecola troppo grande per passare la barriera emato-encefalica ed arrivare direttamente nel cervello.
Ancora non conosciamo bene il meccanismo con il quale influenza il funzionamento del sistema di memoria del lobo temporale, influenzando così i ricordi che esso crea.
Gli effetti sistemici dell’adrenalina comprendono la diminuzione della circolazione sanguigna nel tratto digerente, l’aumento dell’irrorazione dei muscoli scheletrici, per preparare ogni cellula muscolare a produrre più energia e la diminuzione del rifornimento di sangue alla parte anteriore della corteccia cerebrale (proprio l’area che contiene il nostro intelletto, la nostra capacità di pensiero cosciente, l’area destinata a dirigere la soluzione dei nostri problemi complessi).
Vengono quindi “chiuse” aree, per così dire, non essenziali del cervello. Più siamo stressati, più queste aree vengono chiuse. Questo permette ai centri più antichi e più primitivi del cervello di prendere il controllo.
In questo modo le decisioni vengono prese inconsciamente, basandosi sull’istinto, in quanto la sopravvivenza fisica nelle situazioni di forte stress, diventa l’obiettivo primario.


giovedì 28 giugno 2012

Come i bambini apprendono le parole







Come i bambini apprendono le parole
La capacità naturale del bambino di apprendere le parole dal contesto può essere stimolata da una presentazione visuale interattiva (ACQUISIZIONE) più che dal ricorso al dizionario (APPRENDIMENTO), le cui definizioni spesso vengono fraintese.

Ascoltando un bambino che sta imparando a parlare, ciò che colpisce, di solito, è la sua limitata padronanza del linguaggio; si tende invece a sottovalutare il valore assoluto dei traguardi raggiunti dal bambino. Il semplice apprendere dal vocabolario è un'impresa enorme: per molti anni, dopo aver cominciato a parlare, un bambino impara nuove parole al ritmo di oltre 10 al giorno! Sappiamo ben poco, però, su come un bambino riesca in quest'impresa. Certamente, non in virtù di una semplice memorizzazione delle voci di un vocabolario. I risultati delle ricerche fanno pensare che i tentativi formali di costruire il repertorio verbale del bambino rimandandolo al dizionario siano meno efficaci di quel che la maggior parte dei genitori e degli insegnanti sono propensi a credere. Stiamo esaminando la possibilità che per questo scopo si riveli più efficace un programma per Computer in grado di fornire informazioni lessicali relative a parole nuove incontrate nel contesto di un racconto.
Quando un adulto si dispone a imparare una lingua straniera, sa già che cosa lo aspetta. Sa di dover imparare una nuova pronuncia, una nuova grammatica, un nuovo vocabolario e un nuovo stile nell'uso del linguaggio. Sa che dovrà dedicarvi molte ore ogni giorno, per anni, prima di potersi dire padrone della nuova lingua. Sa anche, però, che potrà contare sull'aiuto di insegnanti, che potranno spiegargli, nella sua madrelingua, tutto ciò che deve sapere sulla seconda lingua.
Per i bambini le cose sono ben diverse, infatti, essi non hanno ancora una lingua e non si può, quindi, dire loro ciò che devono imparare. A tre anni, però, padroneggiano la struttura fondamentale della loro madrelingua e sono ben avviati sulla strada che porta alla competenza comunicativa. Per molti individui, l'acquisizione della prima lingua è l'impresa intellettuale più imponente di tutta la vita. Coloro che si sono dedicati allo studio del modo in cui i bambini apprendono il linguaggio generalmente si trovano d'accordo nel ritenere che l'aspetto più notevole di quest'impresa sia la veloce acquisizione della grammatica. Ciononostante, l'abilità dei bambini ad apprendere nuove parole stupisce quasi quanto la loro abilità a conformarsi alle regole grammaticali .
Quante parole si devono conoscere per usare l'inglese (o l'italiano) efficacemente? La risposta dipende da numerose variabili, fra le quali va inclusa la definizione stessa di "parola". Per fornire una valutazione più precisa, possiamo definire una parola come il tipo di unità lessicale che una persona deve apprendere; tutte le forme derivate e composte che costituiscono semplici variazioni morfologiche sul tema concettuale, in questo senso, non devono essere contate come parole distinte. Per esempio, in inglese write è una parola e le sue varianti morfologiche (wntes, wnt, wrote, written, writing, wnter e via dicendo) sono legate da vincoli di parentela, in maniera tale da formare un'unica famiglia; la stessa cosa si può dire, in italiano, per i rapporti che intercorrono fra amare e amante, amato, amano, amò, ameremo e via dicendo. Se una famiglia di questo tipo viene considerata come se fosse una singola parola e la conoscenza di una parola viene definita come la capacità di riconoscere, fra quattro definizioni, quella che più si avvicina al suo significato, allora il vocabolario medio di lettura di un ragazzo al compimento del corso di studi medio superiore consiste di circa 40 000 parole. Se si contano come parole anche i nomi propri di persone e luoghi e le espressioni idiomatiche, questo valore deve essere raddoppiato.
Questa cifra dice qualcosa sull'abilità dei bambini nell'apprendimento delle parole. Se alla fine delle scuole medie superiori un ragazzo ha circa 17 anni, le 80.000 parole devono essere state apprese nell'arco di 16 anni, con un ritmo di apprendimento di 5000 parole all'anno, pari a 13 parole al giorno. I bambini dotati di un vocabolario particolarmente ricco probabilmente assimilano parole nuove a un ritmo circa doppio. Chiaramente, qualunque bambino normale attua un processo di apprendimento assai complesso a grande velocità.
Nessuno insegna ai bambini 13 o più parole al giorno. I bambini debbono avere un talento speciale per questo genere di apprendimento. Alcuni importanti indizi per capire come ciò avvenga sono stati scoperti un decennio fa da Susan Carey e Elsa J. Bartlett, che a quel tempo erano alla Rockefeller University e lavoravano con i nomi dei colori. Identificato un gruppo di bambini di tre anni che non conosceva il colore oliva (la maggior parte di essi lo chiamava verde, qualcuno marrone), Carey e Bartlett insegnarono ai bambini un nome senza senso per il colore oliva, un nome che non potevano aver sentito in alcun altro posto. Presero due vassoi da self-service e li dipinsero uno di oliva, l'altro di blu. Poi a ogni bambino iniziarono a chiedere, senza dare particolare importanza alla cosa, "Dammi il vassoio cromo. Non quello blu, quello cromo." Il bambino si fermava un attimo e magari indicava il vassoio oliva: "Questo?" "Sì, proprio quello. Grazie."
Una settimana più tardi, senza ulteriori spiegazioni, ai bambini vennero chiesti nuovamente i nomi dei colori. Davanti al colore oliva, si fermavano. Non ricordavano la parola cromo, ma ora sapevano che quel colore non si chiama verde o marrone. Un'unica esperienza era stata loro sufficiente per avviare una riorganizzazione del loro lessico dei colori .
Questo esperimento, nella sua semplicità, ha dimostrato alcuni fatti importanti sul modo in cui i bambini apprendono le parole. Innanzitutto, per poter imparare una parola un bambino deve poter associare il suo suono con il suo significato. Padroneggiare la meccanica della fonazione, riconoscere una parola e comprendere il concetto che essa esprime sono processi di apprendimento distinti. Dopo l'esperienza con i vassoi, i bambini sapevano che c'è un nome particolare per il colore oliva (che non è né verde né marrone), ma non ricordavano i particolari suoni vocali associati con quel colore percepito. Possono essere necessarie numerose ripetizioni prima che il suono di una nuova parola diventi familiare.
In secondo luogo, la valutazione del significato di una parola sembra avvenire in due fasi, una rapida e l'altra molto più lenta. I bambini riconoscono rapidamente nuove parole e rapidamente le classificano in grandi categorie semantiche. Dopo aver sentito la parola cromo una sola volta, i bambini di tre anni la facevano rientrare nel campo semantico dei nomi di colori. I bambini riescono a tener distinti questi campi ancora prima di sapere che cosa significhino le singole parole. ACQUISIZIONE IMMEDIATA Se si chiede loro che colore ha una certa cosa, possono rispondere con un nome di colore qualsiasi, scelto a caso, ma non rispondono mai rotondo o cinque o pappa.
APPRENDIMENTO LENTO La fase lenta comporta l'elaborazione delle distinzioni fra parole che appartengono a una stessa categoria semantica. Un bambino che abbia assegnato correttamente "rosso", "verde", "giallo" e "blu" al campo semantico dei termini di colore deve ancora apprendere le differenze e le relazioni che intercorrono fra queste parole. Questa fase di solito richiede molto più tempo della prima, e può anche non essere mai completata; alcuni adulti, per esempio, assegnano correttamente le parole delphinium e calceolana al campo semantico delle angiosperme, ma non sanno quali piante queste parole denotino, e non sanno identificarne visivamente i fiori. In ogni momento, molte parole si trovano in questo stadio intermedio, in cui sono note e categorizzate, ma non ancora distinte l'una dall'altra.
Un aspetto dell'apprendimento di parole da parte di bambini in età prescolare, legato al precedente e che ha attirato molta attenzione, è la cosiddetta sovraestensione. Un bambino che abbia imparato la parola mela può applicarla anche a un pomodoro; egli pensa che mela indichi, per esempio, un oggetto rotondo, rosso e di una certa dimensione. Senza ulteriore specificazione, questi attributi definiscono anche i pomodori maturi, oltre che le mele mature. La sovraestensione può verificarsi quando l'idea che un bambino ha del significato di una parola è incompleta.
Si può verificare anche l'errore opposto, ma esso viene messo in luce solo con domande particolari. Per esempio, se per un bambino la parola mela indica qualcosa di rotondo, rosso e di una certa dimensione, può darsi che egli non usi quel termine quando vuole riferirsi a mele verdi o gialle. L'unico modo per identificare questa sottoestensione consiste nel mostrare al bambino mele verdi o gialle e chiedergli come si chiamano quegli oggetti.
Negli ultimi anni, la capacità dei bambini in età prescolare di appropriarsi di parole ha attirato un'attenzione crescente e ora ne sappiamo molto di più di quando Carey e Bartlett iniziarono i loro studi pionieristici con i nomi di colori. Il processo di apprendimento delle parole, però, diventa ancor piu complesso nel corso degli anni scolastici.
Nei primi anni delle scuole elementari i bambini debbono imparare a leggere e scrivere. In un primo tempo, leggono e scrivono parole familiari, che hanno già appreso attraverso la conversazione. Al quarto anno, all'incirca, cominciano a incontrare parole scritte che non hanno mai sentito in una conversazione. A questo punto, in genere, si suppone che si debba fare qualcosa di particolare per insegnare ai bambini queste parole che a loro non sono familiari.
Questa ipotesi educativa si scontra con problemi seri. I bambini possono rendersi conto di non aver mai incontrato in precedenza una certa parola, ma impararla così bene da poterla usare correttamente e riconoscerla automaticamente è un processo lento. In effetti, imparare una parola nuova comporta una tale chiarificazione concettuale e un tale esercizio fonologico che, semplicemente, in classe non c'è tempo per insegnare in questo modo piu di 100 o 200 parole in un anno. Poiché l'apprendimento sopravanza nettamente I'insegnamento (circa 5000 parole apprese in un anno rispetto alle 200 insegnate) è difficile evitare di porsi la domanda: come fanno i bambini in età scolare a imparare tanto di più rispetto a quanto viene loro insegnato?
Molte parole si acquisiscono con la lettura. I bambini imparano parole a scuola così come fanno a casa: osservando come vengono utilizzate in contesti intelligibili. La differenza sta nel fatto che la situazione di apprendimento scolastico dipende maggiormente da contesti scritti. Sia il senso comune, sia i dati scientifici confortano I'opinione che il modo migliore per facilitare la crescita del vocabolario in età scolare consista nel far leggere i bambini il più possibile.
Imparare parole leggendole in un contesto è un procedimento efficace ma non efficiente; alcuni contesti sono poco informativi, altri sono anche fuorvianti. Se la parola in questione esprime un concetto non familiare, un unico contesto d'uso ben di rado può sostenere qualcosa di piu di una semplice ipotesi sul significato della parola. Perché ci possa essere un effetto sostanziale sul vocabolario, bisogna leggere molto.
Quanto? Un bambino che, per ogni giorno di scuola, passasse 50 minuti a leggere diciamo 200 parole al minuto, leggerebbe un milione di parole in un anno scolastico di 100 giorni. Un milione di parole di testi in prosa italiana non contengono, di norma, più di 50.000 tipi di parole, che rappresentano all'incirca 10.000 famiglie di parole. I libri di testo probabilmente contengono un numero ancora minore di parole diverse. Anche fra 10.000 parole diverse, è poco probabile che ci siano piu di 1000 elementi lessicali completamente nuovi. Dato che per imparare una nuova parola è necessario incontrarla piu volte, è chiaro che leggere un milione di parole all'anno non è sufficiente. Per spiegare un ritmo di crescita di 5000 parole all'anno sembra necessario pensare a un apprendimento continuo grazie a interazioni in conversazione, affiancate dalla lettura di vari milioni di parole ogni anno. In effetti, i bambini che leggono poco al di fuori del contesto scolastico in genere forniscono prestazioni poco soddisfacenti nei test basati sulla padronanza del vocabolario.
Il fatto che i bambini imparino molte più parole di quelle che vengono insegnate loro direttamente consente di trarre conclusioni anche sul ruolo degli insegnanti in questo processo di apprendimento. Imparare nuove parole da contesti d'uso puramente letterari (cioè dai contesti forniti sulla pagina stampata) è più difficile che impararle nell'interazione con una persona. In una conversazione di solito è possibile chiedere a chi parla di spiegare il significato di una parola sconosciuta. Nella maggior parte delle conversazioni, inoltre, I'informazione linguistica viene affiancata da informazioni visive; mentre questo ausilio manca completamente nel caso della pagina stampata.
Date queste difficoltà, sembra ragionevole chiedere agli insegnanti di aiutare i bambini a essere più efficienti nell'apprendimento di nuove parole dal contesto: se non possono insegnare loro tutte le parole che debbono conoscere, forse possono però aiutarli a imparare come elaborare queste cose da soli.
Un modo per stabilire il significato di una parola non familiare consiste nel consultare un dizionario; verso il quarto anno del primo ciclo scolastico, nella maggior parte delle scuole americane, si cominciano a insegnare le abilità relative al suo uso: ortografia, ordine alfabetico, pronuncia, parti del discorso e un po' di morfologia e di etimologia.
L’idea, perfettamente ragionevole, che i bambini debbano imparare come trovare in un dizionario le parole che non conoscono e come capire ciò che leggono in esso si scontra però con una difficoltà: la maggior parte dei bambini sani e intelligenti ha una forte avversione per i dizionari. E forse a ragione. Abbiamo preso in esame alcuni dei compiti che gli insegnanti sono soliti assegnare per indurre gli studenti a usare il dizionario: secondo noi questi esercizi non meritano la fiducia che in essi ripongono insegnanti e genitori.
Spesso, quando si insegna ai bambini come usare un dizionario,vengono assegnati due compiti. Uno comporta l'eliminazione dell'ambiguità: al bambino viene sottoposta una frase che contiene una parola con due o più significati e gli si chiede di consultare il dizionario per stabilire quale significato avesse in mente chi ha formulato la frase. L'altro esercizio richiede una costruzione: si dà al bambino una parola e gli si dice di cercarla nel dizionario e di scrivere una frase che la contenga. A prima vista, ambedue i compiti sembrerebbero istruttivi: è sorprendente, invece, scoprire quanto siano inefficaci.
Imparare da un dizionario richiede una notevole raffinatezza. Interrompere la lettura per trovare una parola non nota in un elenco alfabetico, sempre tenendo in mente il contesto originale, in modo da poterlo confrontare con i significati alternativi forniti dal dizionario e poi scegliere il senso più appropriato per quel contesto, è un compito cognitivo di alto livello. Non dovrebbe sorprendere che i bambini non vi riescano bene, nemmeno quando viene eliminata la maggior parte delle complicazioni. In un esercizio semplificato di eliminazione dell'ambiguità, nel quale a bambini del quarto anno venivano sottoposti due soli significati fra cui scegliere quello inteso in una specifica frase, i risultati sono stati di poco migliori rispetto a una scelta casuale.
Il secondo compito, quello di costruire una frase che incorpori una parola nuova, ha il pregio di richiedere allo studente di usare la parola stessa e quindi, presumibilmente, di pensare al suo significato. Abbiamo studiato ampiamente questo compito costruttivo. Dopo aver letto molte migliaia di frasi scritte da bambini del quinto e sesto anno siamo arrivati alla conclusione che anche questo compito rappresenta nient'altro che una perdita di tempo.
Un esempio delle frasi curiose che abbiamo incontrato è "Mrs. Morrow stimulated the soup" (la signora Morrow stimolò la minestra); esso illustra il tipo di errore commesso più frequentemente dai bambini di quell'età. Se conoscono già la parola, di solito le loro frasi sono perfette; se, invece, essa non è nota, i risultati sono spesso mistificanti. Per capire che cosa ha fatto il bambino quando ha formulato quella frase, bisogna leggere attentamente le definizioni che ha trovato sul vocabolario. In questo caso alla voce stimulate il bambino ha trovato fra le definizioni anche stir up (che significa anche stimolare, incitare, ma piu spesso viene usato nel significato di mescolare, rimestare).
Questo esempio ci dà una chiave per comprendere che cosa succede quando i bambini consultano un dizionario. Trovata la parola che non conoscono, cercano fra le definizioni una parola o un'espressione a loro familiari. Quindi compongono una frase con la parola o I'espressione a loro familiare e al posto di quella inseriscono la parola nuova. Uno dei nostri esempi preferiti è dovuto a una ragazza di quinta, che, cercando nel vocabolario la parola erode (erodere), aveva trovato nella definizione le espressioni eat out e eat away (che significano divorare, consumare, oltre che corrodere. portar via gradualmente) e aveva pensato la frase "Our family eats out a lot" (la nostra famiglia consuma molto). Ponendo poi erode al posto di eats out, aveva ottenuto come frase finale "Our family erodes a lot" (la nostra famiglia erode molto) .
Se i bambini sono così bravi ad apprendere parole nuove quando le sentono o le vedono usate in un contesto, perché hanno problemi a impararle quando le trovano in un dizionario? Abbiamo deciso di stabilire con maggiore precisione che cosa succede quando si incontra una parola non familiare nel contesto di una frase tipica. Uno studio preliminare ci ha indicato che i bambini sono in grado di scrivere frasi migliori se si presenta loro una frase modello contenente la parola, anziché la definizione della parola. Poiché, però, molte delle frasi che scrivevano erano costruite sulla falsariga dei modelli, questo risultato non poteva essere interpretato a conferma dell'idea che i bambini imparino il significato di una parola piu da frasi esemplificative che dalle definizioni. Tuttavia, I'osservazione era incoraggiante e abbiamo continuato le nostre prove.
Il passo successivo era semplice: se un esempio va bene, tre dovrebbero andare ancora meglio. Quando abbiamo fatto il confronto fra le diverse prove, però, abbiamo scoperto che il numero degli esempi faceva poca differenza. I livelli di accettabilità delle frasi scritte dopo aver visto una sola frase modello erano identici ai livelli di accettabilità di quelle scritte sulla base di tre esempi.
Questa osservazione ci ha spinto a riconsiderare quanto accadeva. Evidentemente, per i bambini è difficile integrare tre frasi che non sono in relazione tra loro e quindi essi focalizzano semplicemente I'attenzione su uno dei tre esempi, ignorando gli altri. È un comportamento analogo a quello riscontrato nel caso della lettura delle definizioni del dizionario.
Uno dei risultati ci è apparso sorprendente, sebbene, pensandoci a posteriori, fosse abbastanza prevedibile: anche quando venivano fornite frasi modello al posto delle definizioni, comparivano errori simili a quelli ottenuti per sostituzioni ingenue. Per esempio, data la frase modello "The king's brother tried to usurp the throne"(Il fratello del re tentò di usurpare il trono) per definire la parola non nota usurp, i bambini scrivevano frasi come "The blue chair was usurped from the room" (La sedia azzurra fu usurpata dalla stanza), "Don't try to usurp that tape from the store" (Non tentare di usurpare quel nastro dal negozio), "The thief tried to usurp the money from the safe (Il ladro tentò di usurpare il denaro dalla cassaforte) e così via. Dalla frase modello, essi avevano dedotto che usurp significasse take (prendere) e pertanto componevano le frasi usando take, per poi sostituirlo con usurp.
I bambini sono in grado di valutare almeno in parte il significato di una parola non familiare dal contesto: in questo caso, prendere appare come componente del significato di usurpare. Come i bambini piu piccoli possono sovraestendere la parola mela perché conoscono solo parte del suo significato,così questa definizione parziale di usurpare può dare origine a una sovraestensione: se si definisce in modo incompleto usurpare come prendere, si può usare quella parola in riferimento a qualunque cosa possa essere "presa": sedie, nastri, denaro o altro. In tale prospettiva, il comportamento di questi bambini al quinto o al sesto anno scolastico non rappresenta che uno stadio ulteriore nello sviluppo di un processo di apprendimento delle parole già utilizzato dai bambini in età prescolare.
La strategia della sostituzione appare, quindi, di applicazione molto generale. Nel contesto di una frase modello, tuttavia, ci troviamo di fronte a un fenomeno piu complesso di un semplice errore di sostituzione. In questo caso, i bambini non possono cercare in una frase illustrativa una parola familiare, come possono fare, invece, in una definizione di dizionario. Per prima cosa, essi debbono astrarre dal contesto della parola non familiare un concetto familiare e solo a quel punto possono applicare la regola di sostituzione.
può esistere un modo migliore per favorire la crescita del vocabolario? Quello che noi e altri abbiamo scoperto sul processo di apprendimento delle parole sembra dare credito ad alcuni suggerimenti plausibili. È necessario ricordare che il miglior amico dell'insegnante, in questa impresa, è la motivazione dello studente a scoprire il significato dei messaggi linguistici; solo in questo modo i problemi legati a metodi tradizionali di istruzione cominceranno a diventare chiari. L'esercizio mnemonico su elenchi di parole preselezionate raramente avviene nel momento in cui gli studenti sentono il bisogno di conoscere quelle parole; non si basa infatti sulla motivazione naturale per apprendere le associazioni fra parole e significati. L'apprendimento attraverso la lettura va incontro al problema opposto: nel momento in cui lo studente è motivato ad apprenderne il significato, non sono disponibili informazioni sufficienti sulla parola.
È necessario che la lettura incuriosisca gli studenti a proposito di parole non familiari e che sia affiancata da informazioni immediate sul significato e I'uso di quelle parole. La cosa importante è fornire le informazioni quando chi legge le desidera ancora. I dizionari sono troppo lenti. Il ricorso al dizionario può essere d' aiuto a uno studente maturo e ben motivato, ma per un bambino che frequenta i primi anni di scuola è probabile che agli effetti negativi dell'interruzione si aggiunga la possibilità di fraintendere le informazioni. Un precettore (una persona disponibile per identificare e risolvere i fraintendimenti lessicali) sarebbe molto meglio di un dizionario.
Data la scarsità di precettori premurosi che stiano al fianco di ogni giovane lettore, ci si può chiedere come tale assistenza possa essere garantita da un PC opportunamente programmato. Per esempio, se il materiale di lettura fosse presentato allo studente da un calcolatore programmato per rispondere a domande sui significati delle parole contenute in quei brani, non sarebbe necessaria una ricerca alfabetica: lo studente dovrebbe solo indicare una parola per far apparire le informazioni su di essa. Dato che il calcolatore saprebbe in anticipo quale significato di una parola è appropriato nel contesto, non servirebbero raffinate procedure di eliminazione delI'ambiguità. In effetti, non sarebbe necessaria una definizione: I'espressione o la frase che contengono la parola potrebbero essere riformulate evidenziandone il significato in quel particolare contesto.
Per riprendere esempi già fatti, immaginiamo cosa potrebbe fare il calcolatore con le parole erodere e usurpare. Potrebbe presentare un testo contenente la frase "La popolarità del presidente è stata erosa dai suoi cattivi rapporti con il Congresso". Se lo studente chiede informazioni su erodere, il calcolatore potrebbe dire: "Le cose possono essere erose; quando il terreno viene eroso dalla pioggia o dal vento, si spacca e poi viene lentamente distrutto e rimosso. Anche il potere o l'autorità di qualcuno possono essere erosi: vengono lentamente distrutti o rimossi da sviluppi sfavorevoli. Questo è il tipo di erosione a cui si fa riferimento nella frase sul presidente".
Supponiamo che, nel caso di usurpare, il calcolatore presenti un testo che contiene la frase "Il fratello del re fallì nel suo tentativo di usurpare il trono". Alla richiesta di informazioni, potrebbe rispondere: "Quando si usurpa un titolo, un lavoro o una posizione a qualcun altro, lo si prende o lo si porta via anche se non si ha alcun diritto di farlo. Nella frase sul fratello del re, trono non significa soltanto il seggio occupato dal re; è anche il simbolo dell'autontà regale".
Fornire informazioni di questo genere quasi istantaneamente non è certo al di fuori delle possibilità della tecnologia informatica attuale. È possibile addirittura aggiungere anche una voce sintetica che pronunci la parola e la spieghi, o mostrare immagini che indichino quello che la parola denota nel contesto.
Per sperimentare alcune di queste possibilità, facciamo interagire bambini degli ultimi anni delle scuole elementari con una unità video. Viene chiesto loro di leggere un testo che descrive un episodio, tratto da un filmato che hanno appena visto. Nel testo sono incluse alcune parole evidenziate che si vuole che il lettore impari. Quando ne trova una, il bambino può chiedere informazioni sul suo significato, in tre forme diverse (non alternative tra loro): definizioni, frasi modello e immagini.
Per alcuni bambini, le frasi esemplificative si dimostrano più informative delle definizioni o delle immagini. Quando si dà a questi bambini una definizione, la leggono e tornano rapidamente al racconto. Quando invece si fornisce loro una frase pertinente al racconto, nella quale la parola è usata nello stesso contesto, la interpretano come un rompicapo da risolvere. In tal modo, pensano più a lungo al significato della parola e una settimana dopo la ricordano meglio.
Abbiamo riscontrato che fornire le informazioni quando sono desiderate migliora in maniera significativa la comprensione di parole non familiari da parte dei bambini, come dimostra il fatto che sono capaci di riconoscere i significati e di scrivere frasi accettabili che incorporano quelle parole. Questi risultati confermano che I'uso del pc  può facilitare molto l'apprendimento delle parole.






mercoledì 20 giugno 2012

AUTONOMIA SCOLASTICA: ANCORA TUTTO DA FARE


"AUTONOMIA SCOLASTICA: ANCORA TUTTO DA FARE" STANDARD COMUNI PER COMBATTERE IL GAP NORD-SUD



Autonomia scolastica, governance e valutazione del sistema educativo.



In materia di istruzione e di formazione, il titolo V della Costituzione prevede una ripartizione di competenze tra Stato e Regioni che comporta il graduale passaggio dal monopolio statale a un rafforzamento del ruolo programmatorio delle Regioni e quello gestionale delle scuole autonome, le cui competenze includono: gestione del servizio scolastico, personalizzazione dell'offerta formativa, gestione delle risorse umane e finanziarie all’interno di budget prefissati, definizione di quota dei curricoli in relazione ai soggetti territoriali.





ma la scuola scende o sale?



Ma quello dipinto è un quadro a tinte piuttosto cupe: «La necessità di cambiamento è condivisa da tutti, ma la verità è che la trasformazione è lenta e vischiosa. La legge dell’autonomia è del ’97; l’autonomia è a regime dal 2000 e non solo non è in corso d’opera, ma si sta ancora “pensando” a come avviarla nelle scuole; la revisione del titolo V è del 2001 e ancora cerchiamo la strada da percorrere per tradurla nella realtà». Così, ricordando l’esempio eclatante degli organi collegiali di istituto, la cui normativa è ferma al ’74, e anche il ritardo nazionale rispetto agli obiettivi di Lisbona che ci si era impegnati a raggiungere nel 2010. «C’è da chiedersi se siamo dentro o fuori i confini di uno stato di diritto, perché un’amministrazione centrale come la nostra che non si preoccupa di attuare una norma di dieci anni or sono, sarebbe difficile da comprendere al di fuori dei confini di questo Paese…».

Lettera alla scuola italiana
«Siamo in una situazione di emergenza educativa sia sul piano del confronto internazionale, che - fatto ancor più grave – rispetto al dislivello fra Nord e Sud» ha dichiarato citando i dati Ocse-Pisa il presidente, secondo i quali il livello dell’istruzione del Friuli ad esempio, è paragonabile a quella finlandese, mentre le regioni meridionali rimangono sotto la media nazionale, già per sua natura molto bassa se confrontata con quella degli altri paesi sviluppati. «Come possiamo pensare – ha detto - che il titolo di studio italiano abbia una forte validità legale, quando non abbiamo neppure un serio sistema di parametri comuni con cui valutare i livelli raggiunti dalle differenti regioni?».

«Di certo però – alle scuole servono maggiori risorse finanziarie, mentre anno dopo anno esse hanno perso i budget che avevano in regime preautonomistico. Si stima che ad oggi la perdita si attesti al 70% di quanto possedevano, e questo dice molto sulla reale volontà dello Stato di dare attuazione alle autonomie degli istituti».

Ma non si deve assolutamente replicare a livello regionale il modello centralistico della scuola. «A fronte dell’impianto formativo nato dal titolo V e dalla norma del 2001 che coniuga autonomia e nuovi poteri regionali, le regioni non devono - per mancanza di modelli o pigrizia - ricadere nel modello centralistico. Occorre infatti eliminare la sovrapposizione di competenze fra stato, regioni, enti locali, scuole autonome».

Le aule che non vedremo
«La scuola gioca un ruolo fondamentale, e deve essere al tempo stesso una e plurale: da un lato infatti essa possiede la finalità unica di consolidare solide conoscenze di base e sviluppare competenze generali attraverso una programmazione unitaria; dall’altro ha il compito di dialogare con il territorio - avvalendosi anche dell’autonomia scolastica - adattandovisi e fornendo quelle conoscenze che il territorio stesso può meglio apprezzare, puntando sulle specifiche competenze applicate e applicabili, che più rispondono alle diverse esigenze. La scuola può intercettare queste richieste provenienti dal mondo delle imprese, e creare sull’innesto di conoscenze e di un impianto di una solida cultura di base alcuni orientamenti volti a questo tipo di esigenze».

Aula vecchia monitor senza lcd!
L’autonomia scolastica è strettamente legata alla valutazione, che deve riguardare il sistema, la dirigenza scolastica e la docenza. «Se si devono “orientare” i finanziamenti agli istituti scolastici - ha detto - bisogna porre al centro la valutazione del lavoro svolto, alternanza scuola-lavoro compresa. In Europa – ha continuato - tutti i paesi hanno un proprio sistema di valutazione, un istituto indipendente rispetto al ministero e alle scuole che è in grado di rilevare periodicamente stato di salute della scuola e livello di apprendimento degli studenti. Italia, assieme a Grecia e Creta, è la pecora nera. La valutazione è un passaggio strutturale fondamentale al quale non ci si può più sottrarre, non solo perché funzionale ad un migliore allocazione delle risorse, ma anche in tema di trasparenza verso le famiglie».



POLO QUALITA’

Un’esigenza che è stata sentita anche dagli istituti che hanno partecipato alle iniziative di formazione promosse dall’USR sul modello CAF (Common Assessment Framework) per l’autovalutazione, e rappresentano ben il 34% delle scuole del Veneto. Il CAF aiuta le scuole nei seguenti obiettivi: orientamento ai risultati, focalizzazione sulle parti interessate, gestione per processi e obiettivi, coinvolgimento del personale, miglioramento e innovazione, partnership e responsabilità sociale.

Il sogno di un telescopio a scuola
Dalla valutazione per l’anno 2007/2008, un dato interessante emerso è che la grande maggioranza delle scuole coinvolte possiede un organigramma ed ha definito esplicitamente la propria mission. Il 47% di esse ha un referente per l’autovalutazione da almeno due anni e per il 35% di esse le iniziative di formazione sul CAF sono state occasione per istituire tale figura. Dai risultati emerge che le scuole ritengono che le attività a seguito della formazione sul CAF siano state utili per: acquisire una tecnica per autovalutazione (38%), analizzare i punti di forza e le criticità (25%), acquisire consapevolezza della realtà, attività svolte e risultati raggiunti (18%), individuare le aree da migliorare (17%), sviluppare una visione unitaria di strategie e strumenti (16%). «Sono numeri che dimostrano come il terreno sia pronto e dissodato, è un segnale importante e incoraggiante. La sfida di oggi è quella di estendere questa situazione all’intero Paese».

Il nostro Paese spende in ricerca l'1,10% del Pil, ossia circa un terzo di quanto stabilito dalla strategia di Lisbona (che proponeva l'obiettivo del 3% entro il 2010 ora ridefinito dopo la crisi monetaria del 2010-11), poco più della metà della media europea (1,84%) e meno di Repubblica Ceca, Slovenia e Croazia. Questo dato ci condanna ad una marginalità grave, sottrae alle future generazioni gli strumenti necessari per misurarsi e competere nel panorama internazionale.

Perciò è da qui che si deve ripartire, rimettendo al centro il valore del sapere, della conoscenza e del merito. Perché l'unica speranza di rilanciare la nostra economia è potenziare il vantaggio in termini di sviluppo culturale, scientifico e tecnologico rispetto ai Paesi emergenti.