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sabato 16 giugno 2012

SCIENZA E DIDATTICA






SCIENZA E DIDATTICA
 Una recente indagine della rivista «Mind, Brain and Education» ha di­mostrato che quasi il 90 per cento degli insegnanti considera importante per la pianificazione dei programmi scolastici la co­noscenza del funzionamento del cervello. Il comitato britannico per la ricerca su insegna­mento e apprendimento (Teaching and Le­arning Research Programme) ha riassunto i vantaggi dell'interazione tra neuroscienze e didattica per la formazione di un linguaggio comune tra le due discipline e allo sviluppo di programmi interdisciplinari. Ma le modali­tà di questa interazione sono ambigue.

Una relazione difficile
Da un lato, parte degli insegnanti e dei pe­dagogisti sembra cercare interlocutori tra le discipline scientifiche «di moda», o percepite come emergenti, per derivare nuovi approc­ci didattici. Prima mediante la psicologia si è messo in evidenza il ruolo della motivazione e della capacità creativa; poi, seguendo l'in­fluenza dell'intelligenza artificiale, ci si è do­tati di strumenti informatici e multimediali. Oggi il rapporto privilegiato è con le neu­roscienze, che esercitano un grande fascino ma la cui divulgazione può risultare ingan­nevole se non si è equipaggiati del necessa­rio senso critico. Non è chiaro in che modo gli insegnanti ritengano utili le conoscenze sul funzionamento del cervello per il miglioramento della didatti­ca. D'altro lato, gli scienziati sono ingannati dall'idea di onnipotenza dell'effetto che la loro disciplina possa avere su un'altra, nel caso specifico delle neuroscienze sulle scien­ze pedagogiche.
Oggi la tecnologia ha assunto un ruolo dominante nelle neuroscienze; si fa credere che grazie a sofisticate macchine si possano visualizzare i processi cognitivi nel cervello e quindi sia possibile ricavare teorie più solide perché confortate da presunte osservazioni dirette dell'attività mentale piuttosto che da inferenze a partire da dati comportamentali. I progressi congiunti della psicologia cognitiva e delle neuroimmagini funzionali consentirebbero quindi di rendere visibile, come se il cranio fosse aperto, ciò che del pensiero è invisibile. Come - e se - queste scoperte possano tradursi in orientamenti didattici è tutt'altro che accertato.
Obiettivi diversi
Alla base di molti interventi è possibile rilevare la commistione tra mente e cervello diffusa anche tra gli addetti ai lavori, ossia l'idea che lo studio del funzionamento fisiologico e biologico del cervello sia sufficiente a comprendere i processi mentali e i meccanismi di acquisizione della conoscenza.
Lo studio del cervello e lo studio dei processi cognitivi non sono sinonimi, non si pongono i medesimi obiettivi e rappresentano livelli di conoscenza diversa. Sapere del differente contributo di due strutture cerebrali come ippocampo e talamo nei processi di memorizzazione è un'acquisizione fondamentale per il neuroscienziato, ma è totalmente irrilevante per l'insegnante. Invece riconoscere che l'apprendimento è migliore se il materiale da apprendere è inserito in una cornice concettuale consolidata, o dispone di una coerente organizzazione interna, può guidare le scelte dell'insegnante indipendentemente dai circuiti neuronali interessati.
Lo straordinario contributo delle moderne neuroscienze permette di identificare, interpretare e talvolta diagnosticare precocemente disturbi dell'apprendimento o di proporre rimedi. Per esempio fornendo agli insegnanti strategie di compenso in presenza di studenti con ridotta working memory, pianificando interventi mirati per bambini con disturbi dell'attenzione (DSA), o proponendo le neuroimmagini come strumento per la diagnosi precoce dei disturbi di lettura.
La possibilità di intervento predittivo, diagnostico o rieducativo offerto dalle neuroscienze è proposta come argomento principe per sostenere la tesi dell'importanza delle neuroscienze nella didattica. Tuttavia, se alcuni studenti con disturbi dell'apprendimento possono beneficiare del contributo delle neuroscienze è bene chiarire che questi interventi non comportano necessariamente principi su cui fondare l'attività didattica o soluzioni da estendere all'apprendimento in condizioni di normalità.
L'influenza che le neuroscienze hanno oggi sulla didattica si può riassumere in tre categorie: uso spurio delle neuroscienze per diffondere,
spesso vendere, procedure o programmi teoricamente infondati e non suffragati da dati empirici;
interpretazione semplicistica di teorie complesse che comporta errori applicativi; opzioni didattiche derivate da ricerche mirate e correttamente interpretate.

Neuromiti nelle scuole
Le nuove tecniche di sostegno all'apprendimento, divulgate come basate su conoscenze del funzionamento cerebrale, hanno sempre più successo nelle scuole. Questi metodi si basano su slogan semplicistici e rappresentazioni schematiche e scorrette dei meccanismi neurofisiologici; per esempio, soprattutto nel mondo anglosassone, si sta diffondendo la proposta di Paul Dennison, nota come Brain Gym, comprendente esercizi motori che gli insegnanti dovrebbero proporre per stimolare le capacità mentali. Agli alunni si chiede di spingere la lingua contro il palato per stimolare le aree cerebrali associate alle emozioni; di formare una C con le dita e di premere sulle clavicole per incrementare 1'ossigenazione delle carotidi aumentando così una non meglio definita energia dei lobi frontali e quindi migliorare la capacità di ragionamento; di muovere le gambe alternatamente incrociandole per facilitare la connessione tra i due emisferi cerebrali aumentando l'attività del corpo calloso e migliorando l'efficienza del sistema cognitivo. Queste affermazioni sono o palesemente sbagliate (non si aumenta 1'ossigenazione cerebrale schiacciando le clavicole) o basate su conoscenze corrette ma applicate in modo ingiustifìcato (è vero che ci sono due emisferi cerebrali che comunicano tramite il corpo calloso; non è vero che un'attività bilaterale migliori l'efficienza dell'attività mentale). Oltre a essere teoricamente improprie, queste tecniche non sono sostenute da alcun dato empirico che ne dimostri l'efficacia. BrainGym è solo una tra le innumerevoli proposte di non provata efficacia che riempiono le pagine delle riviste divulgative; gli insegnanti non devono abdicare la loro responsabilità di educatori delegando in modo acritico la loro competenza alle fandonie di divulgatori senza scrupoli.

Errori e omissioni
Se è vero che occorre fare riferimento a modelli teorici fondati che offrono la cornice concettuale entro cui operare, è però sbagliato ritenere che da un modello teorico possa discendere direttamente un metodo didattico.
Tanto più quando dei modelli teorici si considera una versione caricaturale o li si travisa semplificandoli troppo.
Consideriamo due esempi, il primo originato da un'errata interpretazione di un modello cognitivo da parte di educatori e pedagogisti, il secondo derivante da un atteggiamento prescrittivo di scienziati fondato su un uso parziale dei dati a disposizione.
Leggere ad alta voce (ossia trasformare uno stimolo ortografico, una parola, in fonologia) implica due distinti processi cognitivi, in parte paralleli. Si parla di «modello di lettura a due vie”: una elabora le singole lettere (o gruppi di lettere) che compongono la parola per trasformarli in suoni; la seconda, dopo aver riconosciuto le lettere, elabora la parola e ne identifica il significato. Le due vie interagiscono, e sono sempre contemporaneamente attive; entrambe richiedono un passaggio preliminare di riconoscimento delle singole lettere che compongono la parola.
Eppure in ambito educativo si è pensato impropriamente di riconoscere nelle “due vie» una dicotomia talmente netta da essere interpretata come la base di due diversi metodi di insegnamento della lettura, rispettivamente quello sillabico e quello globale. Dato che la seconda via di lettura ha accesso diretto al significato si è pensato che il metodo globale fosse da privilegiare. Ma i dati empirici dimostrano che questo metodo è inadeguato, e addirittura può aggravare le conseguenze di difficoltà di apprendimento anche lievi.
Il secondo esempio prende spunto da una teoria della memoria proposta agli inizi degli anni settanta da Fergus Craik e Robert Lockhart, psicologi dell'Università di Toronto, in Canada, che è nota come teoria dei “livelli di elaborazione». Questa nozione ipotizza che tanto più l'informazione da memorizzare è elaborata in profondità tanto più sarà facile ricordarla. Tenere a mente una parola (per esempio, “cane») è più facile se viene studiata sulla base del significato (è un animale) invece che sulla forma grafica (è scritta in corsivo) o sulla pronuncia (fa rima con pane).
Per acquisire conoscenza è necessario capire, “cogliere un senso», costruire nessi; apprendere significa distinguere il contenuto dalla forma, “andare in profondità» eliminando dettagli, inserire il nuovo significato in una rete di relazioni concettuali precedentemente acquisite. Sulla base di queste considerazioni, a partire degli anni settanta si è sostenuto che fosse sbagliato “imparare a memoria», e si è imposto un approccio didattico che nel tentativo di rifiutare il “nozionismo» ha escluso ogni forma di memorizzazione. Questa indicazione didattica è ancora diffusa, ed è comune tra gli insegnanti l'idea che imparare a memoria sia “un esercizio inutile».
È bene però ricordare che ci sono informazioni, come i nomi propri (di persona o di luogo geografico) e le date, che non hanno “profondità», ma implicano relazioni arbitrarie prive di significato, e quindi possono essere apprese solo memorizzandone la “forma». Negli ultimi anni il prevalere di metodi che hanno escluso l'apprendimento a memoria e teorizzato false contrapposizioni tra gli obiettivi didattici (di una nazione l'economia ma non i nomi delle sue città, di un movimento culturale le idee ma non i nomi dei suoi esponenti principali, di un evento storico le conseguenze politiche ma non la data, di un poeta la tematica ma non il ritmo dei versi, di un pittore l'approccio stilistico ma non il singolo quadro), ha determinato gravi lacune conoscitive: i ragazzi hanno difficoltà a collocare nel tempo gli avvenimenti storici o a individuare in una carta geografica le città che non hanno avuto l'occasione di visitare, e a godere del piacere di riconoscere un'opera d'arte. Imparare non è capire ciò che si studia, ma ricordare ciò che si è capito insieme ai dettagli e a tutti gli aspetti senza profondità che ne hanno permesso la comprensione (non soltanto il senso di una poesia, ma anche il ritmo e l'assonanza che la caratterizzano). Daniel Pennac nel suo libro Diario di scuola perora la causa dell'apprendimento a memoria di poesie e testi letterari; la teoria dei livelli di elaborazione non deve essere usata per privare i ragazzi del piacere di ritrovare nella loro memoria testi e personaggi familiari.

Non solo ricette da applicare
Il fatto che spesso teorie cognitive oppure osservazioni sperimentali vengano travisate o tradotte in pratiche semplicistiche non significa che le scienze cognitive non possano apportare informazioni utili alla didattica. Queste informazioni però non devono essere intese come ricette passepartout ma come indicazioni da valutare nell'ambito dell'interocontesto scolastico.
Per esempio è stato più volte dimostrato che l'apprendimento di una materia è migliore e più stabile se ottenuto grazie a periodi di studio brevi e distribuiti nel tempo, invece che concentrati e intensivi. Per il calendario scolastico i corsi paralleli sarebbero quindi preferibili, mentre i momenti di full immersion potrebbero essere più adeguati per gli aggiornamenti di materiale già conosciuto. Inoltre è noto il principio detto del transfer appropriate processing, che implica la congruenza tra la fase di apprendimento e quella di valutazione, vale a dire tra la modalità di studio e la modalità in cui è posta la richiesta di ricordare. Ne deriva che se si vuole stimolare la capacità di pianificare l'apprendimento si potrebbe anticipare agli studenti la modalità di esame così da consentire loro di programmare lo studio. D'altra parte, se l'obiettivo è quello di ottenere un apprendimento più stabile e meno sensibile agli indizi esterni, quindi indipendente dal tipo d'esame, gli insegnanti potrebbero decidere di non anticiparne le modalità. Non c'è gerarchia tra le due proposte, entrambe sono coerenti con le conoscenze derivanti dalle scienze di base, ma in sé una non è migliore dell'altra.
Anche le teorie sul funzionamento della memoria forniscono informazioni che gli insegnanti, in accordo con il modello educativo che intendono perseguire e con i risultati che si prefiggono, possono utilizzare per strutturare il loro impianto didattico.
Henry L. Roediger, della Washington University di St. Louis, e Jeffrey D. Karpicke, della Purdue University, nell'Indiana, in un lavoro pubblicato su «Psychological Science», hanno dimostrato che la fase d'esame è tanto importante quando la fase di studio nel consolidare l'apprendimento scolastico; quindi test frequenti durante il corso, oltre a consentire ai docenti il monitoraggio dell'apprendimento, funzionerebbero anche da sostegno mnemonico per gli studenti. I risultati di questi test potrebbero essere valutati diversamente dall'esame finale se si privilegia l'accertamento dell'avvenuta acquisizione del materiale; oppure potrebbero essere considerati veri e propri esami intermedi qualora si privilegiasse la continuità dello studio durante 1'anno scolastico.

Il grembiulino non basta
Gli esempi descritti sopra dimostrano che il ruolo della scienza non è mai prescrittivo, vale a dire che la scienza non deve imporre soluzioni concrete applicabili indipendentemente dal contesto. La scienza è per sua natura descrittiva ed esplicativa (per esempio interpreta il divenire del mondo con teorie evoluzionistiche invece che creazionistiche); deve fornire i contenuti sui quali lavorare, ma non può suggerire modalità esecutive d'apprendimento. Questo vale anche per le neuroscienze e per la loro interazione con le discipline pedagogiche e l'istruzione scolastica.
Non si deve pensare a una gerarchia tra scienza di base e scienze applicative: le scienze di base forniscono conoscenza e modelli interpretativi che guidano e aiutano la riflessione degli insegnanti; gli insegnanti portano esperienze e metodi di lavoro che possono produrre dati empirici in grado di contribuire a validare o falsificare le teorie scientifiche. Scienze dell'educazione e scienze cognitive sono saperi autonomi che devono incontrarsi nel concreto dell'azione educativa. Ma come possono gli insegnanti ricavare proposte utili dalle scoperte scientifiche? Per non essere ridotti a meri esecutori di ricette altrui, si devono chiedere quale cultura e quali metodi debbano possedere per elaborare i contenuti delle discipline di base e interagire con gli altri specialisti.
È condivisibile, come proposto dal ministro Gelmini, il riferimento alla scuola descritta da Edmondo De Amicis, che oltre che severa e grembiulata era anche laica e pubblica. Per attuare questo programma però è necessario mettere gli insegnanti nella condizione di essere più colti di Perboni e della maestrina dalla penna rossa. Il riferimento a ciò che di positivo ereditiamo dal passato (rigore, impegno, merito, nozioni) non deve servire da pretesto per riprodurre quanto di sbagliato c'era nel passato (maestro unico, autoritarismo, luoghi comuni) né per togliere quanto acquisito (numero di aule e insegnanti, nuove materie, forme di partecipazione). Al contrario deve aggiungere ciò che può far fronte ai problemi della scuola di oggi: una più adeguata formazione e una maggiore specializzazione per gli insegnanti, che includano anche gli strumenti per apprezzare criticamente il contributo delle neuroscienze alla didattica.

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