Una recente indagine della
rivista «Mind, Brain and Education» ha dimostrato che quasi il 90 per cento
degli insegnanti considera importante per la pianificazione dei programmi
scolastici la conoscenza del funzionamento del
cervello. Il comitato britannico per la ricerca su insegnamento e
apprendimento (Teaching and Learning Research Programme) ha riassunto i
vantaggi dell'interazione tra neuroscienze e
didattica per la formazione di un linguaggio comune tra le due
discipline e allo sviluppo di programmi interdisciplinari. Ma le modalità di
questa interazione sono ambigue.
Una relazione difficile
Da un lato, parte degli insegnanti e
dei pedagogisti sembra cercare interlocutori tra le discipline scientifiche
«di moda», o percepite come emergenti, per derivare nuovi approcci didattici.
Prima mediante la psicologia si è messo
in evidenza il ruolo della motivazione
e della capacità creativa; poi, seguendo l'influenza dell'intelligenza
artificiale, ci si è dotati di strumenti
informatici e multimediali. Oggi il rapporto privilegiato è con le neuroscienze, che esercitano un grande
fascino ma la cui divulgazione può risultare ingannevole se non si è
equipaggiati del necessario senso critico. Non è chiaro in che modo gli
insegnanti ritengano utili le conoscenze sul funzionamento del cervello per il
miglioramento della didattica. D'altro lato, gli scienziati sono ingannati
dall'idea di onnipotenza dell'effetto che la loro disciplina possa avere su
un'altra, nel caso specifico delle neuroscienze sulle scienze pedagogiche.
Oggi la tecnologia ha assunto un
ruolo dominante nelle neuroscienze; si fa credere che grazie a sofisticate macchine si possano
visualizzare i processi cognitivi nel cervello e quindi sia possibile
ricavare teorie più solide perché confortate da presunte osservazioni dirette
dell'attività mentale piuttosto che da inferenze a partire da dati
comportamentali. I progressi congiunti della psicologia cognitiva e delle
neuroimmagini funzionali consentirebbero quindi di rendere visibile, come se il cranio fosse aperto, ciò
che del pensiero è invisibile. Come - e se - queste scoperte possano
tradursi in orientamenti didattici è tutt'altro che accertato.
Obiettivi diversi
Alla base di molti interventi è
possibile rilevare la commistione
tra mente e cervello diffusa anche tra gli addetti ai lavori, ossia
l'idea che lo studio del funzionamento fisiologico e biologico del cervello sia
sufficiente a comprendere i processi mentali e i meccanismi di acquisizione
della conoscenza.
Lo studio del cervello e lo studio
dei processi cognitivi non sono sinonimi, non si pongono i medesimi obiettivi e
rappresentano livelli di conoscenza diversa. Sapere del differente contributo
di due strutture cerebrali come ippocampo e talamo nei
processi di memorizzazione è un'acquisizione fondamentale per il
neuroscienziato, ma è totalmente irrilevante per l'insegnante. Invece
riconoscere che l'apprendimento è migliore se il materiale da apprendere è
inserito in una cornice concettuale consolidata, o dispone di una coerente
organizzazione interna, può guidare le scelte dell'insegnante indipendentemente
dai circuiti neuronali interessati.
Lo straordinario contributo delle
moderne neuroscienze permette di identificare, interpretare e talvolta diagnosticare precocemente disturbi
dell'apprendimento o di proporre rimedi. Per esempio fornendo agli
insegnanti strategie di compenso in presenza di studenti con ridotta working memory,
pianificando interventi mirati per bambini con disturbi dell'attenzione (DSA),
o proponendo le neuroimmagini come strumento per la diagnosi precoce dei
disturbi di lettura.
La possibilità di intervento
predittivo, diagnostico o rieducativo offerto dalle neuroscienze è proposta
come argomento principe per sostenere la tesi dell'importanza delle
neuroscienze nella didattica. Tuttavia, se alcuni studenti con disturbi
dell'apprendimento possono beneficiare del contributo delle neuroscienze è bene
chiarire che questi interventi non comportano necessariamente principi su cui
fondare l'attività didattica o soluzioni da estendere all'apprendimento in
condizioni di normalità.
L'influenza che le neuroscienze
hanno oggi sulla didattica si può riassumere in tre categorie: uso spurio delle
neuroscienze per diffondere,
spesso vendere,
procedure o programmi teoricamente infondati e non suffragati da dati empirici;
interpretazione
semplicistica di teorie complesse che comporta errori applicativi; opzioni didattiche derivate da ricerche mirate e
correttamente interpretate.
Neuromiti nelle scuole
Le nuove tecniche di sostegno
all'apprendimento, divulgate come basate su conoscenze del funzionamento
cerebrale, hanno sempre più successo nelle scuole. Questi metodi si basano su slogan semplicistici e
rappresentazioni schematiche e scorrette dei meccanismi neurofisiologici; per
esempio, soprattutto nel mondo anglosassone, si sta diffondendo la proposta di
Paul Dennison, nota come Brain Gym, comprendente esercizi motori che gli insegnanti dovrebbero proporre per
stimolare le capacità mentali. Agli alunni si chiede di spingere la
lingua contro il palato per stimolare le aree cerebrali associate alle
emozioni; di formare una C con le dita e di premere sulle clavicole per
incrementare 1'ossigenazione delle carotidi aumentando così una non meglio
definita energia dei lobi frontali e quindi migliorare la capacità di
ragionamento; di muovere le gambe alternatamente incrociandole per facilitare
la connessione tra i due emisferi cerebrali aumentando l'attività del corpo
calloso e migliorando l'efficienza del sistema cognitivo. Queste affermazioni sono o
palesemente sbagliate (non si aumenta 1'ossigenazione cerebrale
schiacciando le clavicole) o basate
su conoscenze corrette ma applicate in modo ingiustifìcato (è vero che
ci sono due emisferi cerebrali che comunicano tramite il corpo calloso; non è vero che un'attività bilaterale migliori
l'efficienza dell'attività mentale). Oltre a essere teoricamente
improprie, queste tecniche non sono sostenute da alcun dato empirico che ne
dimostri l'efficacia. BrainGym è solo una tra le innumerevoli proposte di non provata efficacia che
riempiono le pagine delle riviste divulgative; gli insegnanti non devono
abdicare la loro responsabilità di educatori delegando in modo acritico la loro
competenza alle fandonie di divulgatori senza scrupoli.
Errori e omissioni
Se è vero che occorre fare
riferimento a modelli teorici fondati che offrono la cornice concettuale entro
cui operare, è però sbagliato ritenere che da un modello teorico possa
discendere direttamente un metodo didattico.
Tanto più quando dei modelli teorici
si considera una versione caricaturale o li si travisa semplificandoli troppo.
Consideriamo due esempi, il primo
originato da un'errata interpretazione di un modello cognitivo da parte di
educatori e pedagogisti, il secondo derivante da un atteggiamento prescrittivo
di scienziati fondato su un uso parziale dei dati a disposizione.
Leggere ad alta
voce (ossia
trasformare uno stimolo ortografico, una parola, in fonologia) implica due
distinti processi cognitivi, in parte paralleli. Si parla di «modello di lettura a due vie”: una elabora le
singole lettere (o gruppi di lettere) che compongono la parola per trasformarli
in suoni; la seconda, dopo aver riconosciuto le lettere, elabora la parola e ne
identifica il significato. Le due vie interagiscono, e sono sempre
contemporaneamente attive; entrambe richiedono un passaggio preliminare di
riconoscimento delle singole lettere che compongono la parola.
Eppure in ambito educativo si è pensato impropriamente di
riconoscere nelle “due vie» una dicotomia talmente netta da essere interpretata
come la base di due diversi metodi di insegnamento della lettura,
rispettivamente quello sillabico e quello globale. Dato che la seconda via di
lettura ha accesso diretto al significato si è pensato che il metodo globale
fosse da privilegiare. Ma i dati empirici dimostrano che questo metodo è
inadeguato, e addirittura può aggravare le conseguenze di difficoltà di
apprendimento anche lievi.
Il secondo esempio prende spunto da
una teoria della memoria proposta agli
inizi degli anni settanta da Fergus Craik e Robert Lockhart, psicologi
dell'Università di Toronto, in Canada, che è nota come teoria dei “livelli di
elaborazione». Questa nozione ipotizza che tanto più l'informazione da
memorizzare è elaborata in profondità tanto più sarà facile ricordarla. Tenere
a mente una parola (per esempio, “cane») è più facile se viene studiata sulla
base del significato (è un animale) invece che sulla forma grafica (è scritta
in corsivo) o sulla pronuncia (fa rima con pane).
Per acquisire conoscenza è
necessario capire, “cogliere un senso», costruire nessi; apprendere significa
distinguere il contenuto dalla forma, “andare in profondità» eliminando
dettagli, inserire il nuovo significato in una rete di relazioni concettuali
precedentemente acquisite. Sulla base di queste considerazioni, a partire degli
anni settanta si è sostenuto che fosse sbagliato “imparare a memoria», e si è imposto un approccio
didattico che nel tentativo di rifiutare il “nozionismo» ha escluso ogni forma di
memorizzazione. Questa indicazione didattica è ancora diffusa, ed è comune tra
gli insegnanti l'idea che imparare a memoria sia “un esercizio inutile».
È bene però ricordare che ci sono
informazioni, come i nomi propri (di persona o
di luogo geografico) e le date, che non hanno “profondità», ma implicano
relazioni arbitrarie prive di significato, e quindi possono essere apprese solo
memorizzandone la “forma». Negli ultimi anni il prevalere di metodi che hanno
escluso l'apprendimento a memoria e teorizzato false contrapposizioni tra gli
obiettivi didattici (di una nazione l'economia ma non
i nomi delle sue città, di un movimento culturale le idee ma non i nomi dei
suoi esponenti principali, di un evento storico le conseguenze politiche ma non
la data, di un poeta la tematica ma non il ritmo dei versi, di un pittore
l'approccio stilistico ma non il singolo quadro), ha determinato gravi lacune conoscitive: i ragazzi hanno difficoltà a
collocare nel tempo gli avvenimenti storici o a individuare
in una carta geografica le città che non hanno avuto l'occasione di
visitare, e a godere del piacere di riconoscere un'opera d'arte. Imparare non è capire ciò che si studia, ma ricordare ciò che
si è capito insieme ai dettagli e a tutti gli aspetti senza profondità che ne
hanno permesso la comprensione (non soltanto il senso di una poesia, ma
anche il ritmo e l'assonanza che la caratterizzano). Daniel Pennac nel suo libro Diario di scuola perora la
causa dell'apprendimento a memoria di poesie e testi letterari; la
teoria dei livelli di elaborazione non deve essere usata per privare i ragazzi
del piacere di ritrovare nella loro memoria testi e personaggi familiari.
Non solo ricette da
applicare
Il fatto che spesso teorie cognitive
oppure osservazioni sperimentali vengano travisate o tradotte in pratiche
semplicistiche non significa che le scienze cognitive non possano apportare
informazioni utili alla didattica. Queste informazioni però non devono essere
intese come ricette passepartout ma come indicazioni da valutare nell'ambito
dell'interocontesto scolastico.
Per esempio è stato più volte
dimostrato che l'apprendimento di una materia è
migliore e più stabile se ottenuto grazie a periodi di studio brevi e
distribuiti nel tempo, invece che concentrati e intensivi. Per il
calendario scolastico i corsi paralleli sarebbero quindi preferibili, mentre i
momenti di full immersion potrebbero essere più
adeguati per gli aggiornamenti di materiale già conosciuto. Inoltre è
noto il principio detto del transfer
appropriate processing, che implica la congruenza tra la fase di
apprendimento e quella di valutazione, vale a dire tra la modalità di studio e
la modalità in cui è posta la richiesta di ricordare. Ne deriva che se si vuole
stimolare la capacità di pianificare l'apprendimento si potrebbe anticipare agli studenti la modalità di esame
così da consentire loro di programmare lo studio. D'altra parte, se
l'obiettivo è quello di ottenere un apprendimento più stabile e meno sensibile
agli indizi esterni, quindi indipendente dal tipo d'esame, gli insegnanti
potrebbero decidere di non anticiparne le modalità. Non c'è gerarchia tra le
due proposte, entrambe sono coerenti con le conoscenze derivanti dalle scienze
di base, ma in sé una non è migliore dell'altra.
Anche le teorie sul funzionamento
della memoria forniscono informazioni che gli insegnanti, in accordo con il
modello educativo che intendono perseguire e con i risultati che si prefiggono,
possono utilizzare per strutturare il loro impianto didattico.
Henry L. Roediger, della Washington
University di St. Louis, e Jeffrey D. Karpicke, della Purdue University,
nell'Indiana, in un lavoro pubblicato su «Psychological Science», hanno dimostrato
che la fase d'esame è tanto importante quando la fase di studio nel consolidare
l'apprendimento scolastico; quindi test
frequenti durante il corso, oltre a consentire ai docenti il monitoraggio dell'apprendimento,
funzionerebbero anche da sostegno mnemonico per gli studenti. I risultati di
questi test potrebbero essere valutati diversamente dall'esame finale se si
privilegia l'accertamento dell'avvenuta acquisizione del materiale; oppure
potrebbero essere considerati veri e propri esami intermedi qualora si
privilegiasse la continuità dello studio durante 1'anno scolastico.
Il grembiulino non basta
Gli esempi descritti sopra
dimostrano che il ruolo della
scienza non è mai prescrittivo, vale a dire che la scienza non deve
imporre soluzioni concrete applicabili indipendentemente dal contesto. La
scienza è per sua natura descrittiva ed esplicativa (per esempio interpreta il
divenire del mondo con teorie evoluzionistiche invece che creazionistiche);
deve fornire i contenuti sui quali lavorare, ma
non può suggerire modalità esecutive d'apprendimento. Questo vale anche
per le neuroscienze e per la loro interazione con le discipline pedagogiche e
l'istruzione scolastica.
Non si deve pensare a una gerarchia
tra scienza di base e scienze applicative: le scienze di base forniscono
conoscenza e modelli interpretativi che guidano e aiutano la riflessione degli
insegnanti; gli insegnanti portano esperienze e metodi di lavoro che possono
produrre dati empirici in grado di contribuire a validare o falsificare le teorie
scientifiche. Scienze
dell'educazione e scienze cognitive sono saperi autonomi che devono incontrarsi
nel concreto dell'azione educativa. Ma come possono gli insegnanti
ricavare proposte utili dalle scoperte scientifiche? Per non essere ridotti a
meri esecutori di ricette altrui, si devono chiedere quale cultura e quali
metodi debbano possedere per elaborare i contenuti delle discipline di base e
interagire con gli altri specialisti.
È condivisibile, come proposto dal
ministro Gelmini, il riferimento alla scuola descritta da Edmondo De Amicis,
che oltre che severa e grembiulata era anche laica e pubblica. Per attuare questo programma però è necessario mettere gli
insegnanti nella condizione di essere più colti di Perboni e della maestrina
dalla penna rossa. Il riferimento a ciò che di positivo ereditiamo dal passato (rigore, impegno, merito, nozioni)
non deve servire da pretesto per riprodurre quanto di sbagliato c'era nel
passato (maestro unico, autoritarismo, luoghi
comuni) né per togliere quanto acquisito (numero
di aule e insegnanti, nuove materie, forme di partecipazione). Al
contrario deve aggiungere ciò che può far fronte ai problemi della scuola di
oggi: una più adeguata formazione e una maggiore
specializzazione per gli insegnanti, che includano anche gli strumenti per
apprezzare criticamente il contributo delle neuroscienze alla didattica.
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